
Contributo di Antonio Alei.
All’alba del 28 dicembre 1908 intorno alle ore 5,20 il prof. Gaetano Salvemini – storico, politico, filosofo e scrittore, docente a soli 28 anni di Storia Moderna presso l’università di Messina – stava dormendo nella sua abitazione al quarto piano in centro città.
Pochi istanti dopo un sisma di magnitudo 7.1 Richter gli uccise la moglie, i 5 figli e la sorella, distrusse completamente Messina e provocò circa 80.000 morti. Alcuni giorni prima il professore aveva preparato un articolo per il secondo numero di una nuova rivista di cultura e politica, “La Voce“, fondata a Firenze dal suo caro amico Giuseppe Prezzolini e da Giovanni Papini.
Qui è riportato uno stralcio dell’editoriale dal titolo “La nostra promessa” uscito dalla penna di Prezzolini per il primo numero della rivista edita il 27 dicembre 1908, vigilia del predetto terremoto (la copia del primo numero è disponibile al link https://tewresah.files.wordpress.com/2012/03/27-dicembre.pdf):
“Non promettiamo di essere dei geni, di sviscerare il mistero del mondo e di determinare il preciso e quotidiano menu delle azioni che occorrono per diventare grandi uomini. Ma promettiamo di essere ONESTI e SINCERI. Noi sentiamo fortemente l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia e il rivoltante traffico che si fa delle cose dello spirito. Sono queste le infinite forme d’arbitrio che intendiamo DENUNCIARE e COMBATTERE. Tutti le conoscono, molti ne parlano; nessuno le addita pubblicamente. Sono i giudizi leggeri e avventati senza possibilità di discussione, la ciarlataneria di artisti deficienti e di pensatori senza reni, il lucro e il mestiere dei fabbricanti di letteratura, la vuota formulistica che risolve automaticamente ogni problema. Di LAVORARE abbiamo voglia. Già ci proponiamo di tener dietro a certi movimenti sociali che si complicano di ideologie, come il modernismo e il sindacalismo; di INFORMARE, senza troppa smania di novità, di quel che meglio si fa all’estero; di PROPORRE riforme e miglioramenti alle biblioteche pubbliche, di OCCUPARCI della crisi morale delle università italiane; di SEGNALARE le opere degne di lettura e di COMMENTARE le viltà della vita contemporanea…”
E l’articolo preparato da Salvemini prima del sisma verte proprio sulla crisi morale del mondo universitario di allora, ma anche dell’intero Paese, ed ha un titolo assai emblematico “Cocò all’Università di Napoli o la scuola della mala vita“
Il testo integrale è disponibile al sito http://www.bibliotecaginobianco.it/?p=154&t=cocò-all-università-di-napoli,mentre questi sono alcuni dei passaggi più significativi:
Gli adolescenti che dopo aver fatto il liceo in una città del Napoletano, lasciano la famiglia per andare ad addottorarsi all’Università di Napoli, sono forniti assai di rado, di una perfetta e solida coscienza morale.
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La più parte dei meridionali, invece va a finire a Napoli. E Napoli è la piaga del mezzogiorno, come Roma è la piaga di tutta l’Italia. Nelle città universitarie del Nord non mancano, certo, occasioni di sviarsi al giovane, sfuggito appena alla costrizione della famiglia e della scuola secondaria, e avido di bere a grandi sorsi la coppa della libertà. Ma una grande ondata di lavoro affannoso travolge tutto, compensa ogni male, purifica tutto.
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Napoli, invece, vasto centro di consumi e di attività improduttive, in cui una metà della popolazione campa borseggiando e truffando l’altra metà, sembra fatta a posta per incoraggiare alla poltroneria e per educare alla immoralità. Tutto è chiasso, tutto è dolce far niente quando non è imbroglio e abilità. Dal lazzarone che si spidocchia al sole, all’alto magistrato di cui tutti dicono sottovoce che vende le sentenze; dal questurino che sfrutta le prostitute, al giornalista ricattatore che sfoggia sfacciato, automobili e amanti; tutto sembra che consigli al giovane: “Arrangiati, che io mi arrangio: l’onestà e il lavoro sono buoni per gli sciocchi: godere è lo scopo della vita”.
Qualche volta Cocò si ricorda di essere anche studente universitario: quando c’è da fare una chiassata. Cocò è quasi sempre anticlericale: quando viveva Giovanni Bovio, non mancava mai di andare ad ascoltarlo e di applaudirlo almeno una volta all’anno. Spesso Cocò è addirittura socialista rivoluzionario: è insuperabile nel rompere le vetrate, nel fracassare le panche, nel fare con la bocca e con la mano suoni non perfettamente musicali. Cocò può essere rivoluzionario tanto più agevolmente, in quanto è sicuro a priori dell’impunità, qualunque birbonata faccia: i carabinieri, che moschettano per dei nonnulla i contadini affamati, non daranno mai noia al caro figlio di papà. E Cocò è sicuro a tutte le ore di trovare all’Università qualche migliaio di mascalzoni simili a lui, protetti dall’immunità come lui, sempre pronti a fare come lui i socialisti rivoluzionari.
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Una Università in cui 5000 alunni fanno ogni anno, nelle sole sessioni di estate e autunno, senza contare quella abusiva di marzo, 17000 esami, non può cercare troppo il pelo nell’uovo in questo genere di operazioni. Eppoi parecchi professori ufficiali esercitano anche le libere docenze: iscrivendosi al loro corso libero, l’elegantone laureato si garantisce abbastanza bene contro i rischi di quegli esami che dipendono da quei professori.
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Ed ecco come l’Università di Napoli sforna ogni anno circa 600 fra medici e avvocati e una sessantina fra professori di lettere e di scienze, dei quali la più parte non è assolutamente capace di scrivere dieci righe senza almeno dieci errori di grammatica ed è intellettualmente abbruttita e moralmente disfatta.
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Cocò analfabeta e laureato, si avvede ben presto di essere inetto a vincere un concorso per la magistratura o per le prefetture o per i ministeri, se è avvocato; è sistematicamente bocciato nei concorsi per le scuole medie, se professore; non ha nessun titolo di capacità per ottenere una condotta fuori dal paese natio, se medico. Se ne ritorna dunque, sospirando alla casa paterna dove lo aspettano la mamma invecchiata e le sorelle avvizzite. E qui impotente a vivere con i frutti della professione libera, privo, come è di qualunque abilità tecnica, tenta di assicurarsi un reddito, anche minimo, con un impiego municipale.
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L’azione politica degli spostati ha una grandissima importanza nella società moderna, perché costoro, non avendo nulla da fare, fanno per tutto il giorno della politica: sono giornalisti, libellisti, galoppini elettorali, conferenzieri, propagandisti. Fanno di tutto; e in grazia delle loro attività, si conquistano i primi posti nelle file dei partiti politici, diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti, i guardiani e i padroni delle posizioni strategiche.
Per tal modo tutta la vita dei partiti si accentra in essi; e poiché le idee non girano per le strade sulle proprie gambe, ma si incarnano in uomini, si ha che le più belle idee, i più bei programmi di questo mondo, quando cadono nelle mani di quei miserabili, si riducono a pretesto per conquistare un impiego. E i partiti vanno in rovina; perché conseguita la vittoria, la distribuzione degli impieghi è causa di ingiustizia contro gli impiegati antichi o di dissidi fra gli aspiranti, sempre più numerosi del bisogno; una prima ingiustizia indebolendo moralmente gli amministratori che l’hanno commessa, li dà mani e piedi legati in balia degli elementi peggiori del partito, che minacciando scandali e pronunciamenti, ricattano senza posa e senza freno i loro padroni e li obbligano a nuove ingiustizie o a nuove immoralità; gli impiegati maltrattati si inviperiscono; gli aspiranti delusi o passano al partito avversario, o restano nel partito a crear nuove scissioni e sospetti e recriminazioni.
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E così gli spostati – il così detto proletariato dell’intelligenza – formano la grande maggioranza della classe politicamente attiva, sono ovunque padroni del campo, saccheggiano senza limiti e senza freno i bilanci comunali; e si possono dare anche il lusso di dividersi in partiti secondo che sperano l’impiego dal gruppo amministrativo dominante o all’opposizione. E le spese di tutto questo lavoro le fanno sempre alla chiusura dei registri, i contadini.
E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni individuali, il rappresentante politico di una delle due camorre di professionisti affamati, che si contendono il potere amministrativo per mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di beneficenza e per tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste nell’impetrare l’acquiescienza della prefettura, della magistratura, della questura, alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la fiducia al governo in tutte le votazioni pr appello nominale.
Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta l’Italia.
Ecco, questo è il pensiero di Salvemini, archetipo di quello che oggi sarebbe definito con termine anglosassone un self-made-man (persona che si è fatta da sola, senza appoggi e raccomandazioni); uomo del meridione in quanto nato e cresciuto a Molfetta, in quel profondo Sud di cui ha potuto osservare in prima persona il degrado culturale e la deriva sociale, ma che ha fatto esperienze significative anche al Nord, di cui riconosce meriti, limiti e colpe, ma che “assolve” perché dotato di una borghesia ancora in grado, allora, di arginare e confinare il malcostume e la corruttela dilaganti.
Oggi avrebbe la conferma che quanto pronosticato oltre un secolo fa si è purtroppo avverato e che i “Cocò” non albergano solo nelle università del Sud, ma hanno tracimato per ogni dove, occupando tanto gli atenei quanto tutti i posti di potere e di governo.
E i risultati, tangibili, degli innumerevoli, impassibili e inamovibili “Cocò” odierni li “godiamo” sulla nostra pelle tutti i giorni.