Uccisione di cristiani: una ogni 24 ore

La fotoreporter Andreja Restek ci porta nel mondo oscuro della persecuzione religiosa in medio oriente, l'Isis perseguita e uccide i cristiani.

Iraq, ph © Andreja Restek
di Andreja Restek per APR News.

Al giorno d’oggi in molti Paesi del mondo le minoranze etniche, religiose e di altro tipo sono perseguitate. I rapporti ufficiali mostrano che ogni 24 ore viene uccisa una persona di fede cristiana. Inoltre, 245 milioni di cristiani nel mondo sono imprigionati, torturati o subiscono qualche tipo di violenza fisica o psicologica.
Ed è così anche in Iraq, dove essere cristiano è estremamente difficile.

L’Iraq è un paese a maggioranza musulmana, con il 62% circa di sciiti e il restante 34% di sunniti, e c’è solo una piccola minoranza (4%) composta da altre religioni, tra cui quella cristiana. La popolazione dei cristiani in Iraq è drasticamente diminuita negli anni. Nel 1947 rappresentava il 12% della popolazione, prima del 2003 erano 1.5 milioni, mentre nel 2019 il loro numero è diminuito a sole 150.000 persone.

La maggior parte di loro vive nella regione della piana di Ninive, con una piccola presenza a Baghdad. Non sono autorizzati a fare proselitismo, soprattutto tra i musulmani. Le persone di fede musulmana che cambiano il loro credo rischiano anche la pena di morte.

La piana di Ninive è stata occupata dall’autoproclamato Stato Islamico a partire dal gennaio 2014 fino alla liberazione nell’ottobre 2017. Una delle città che erano state occupate è Qaraqosh, 25.000 abitanti, dei quali la maggior parte cristiani.

Padre Jalal Yako, che appartiene alla Congregazione dei Rogazionisti di Messina (fondata nel 1878), vive a Qaraqosh e abita nel quartiere Shiqaq, che è la parte più povera della città. Arrivato nel 2013, si è situato in una modesta abitazione sottostante all’unico asilo da dove ogni mattina si sentono arrivare le voci gioiose, i canti e le risa di 48 bambini. La struttura, che viene gestita dall’organizzazione gesuita J.R.S, dà lavoro a 7 persone del posto.

Iraq, ph © Andreja Restek

Insieme ad altri ecclesiastici, Padre Jalal cerca di ricostruire la città che fino a poco tempo fa era una città fantasma, distrutta durante la fuga dai terroristi del Daesh. Soprattutto però, cerca di dare una speranza per il futuro ai suoi concittadini. 

Padre Jalal ha studiato e vissuto in Italia per quasi 20 anni ed è tornato in Iraq nel periodo più difficile, durante l’arrivo dell’ISIS, perché racconta “è qui che le persone avevano bisogno di me”.

“Quando sono arrivati quelli dell’ISIS le famiglie sono fuggite a Erbil e quando tutti sono andati via alla fine sono partito anch’io. La città, che era diventata sede dei terroristi e delle loro famiglie, adesso sta riprendendo vita dalla distruzione, e le ferite fisiche sono ogni giorno meno visibili “, racconta padre Jalal.

Nel corso dell’occupazione le case dei cristiani sono diventate abitazioni delle famiglie del Daesh, che durante la fuga le hanno distrutte, saccheggiate e bruciate, lasciando molte trappole esplosive al loro interno, trappole che si trovano anche in giro per la città. Al loro ritorno gli abitanti hanno trovato distrutta la città, che adesso, grazie alla Chiesa e ai donatori privati, ha ripreso vita. Ma l’incertezza e la paura non hanno abbandonato la comunità dei cristiani. Si avvertono anche forti tentativi di islamizzazione della regione storicamente cristiana, con tentativi di acquisire le terre delle famiglie cristiane oppure con tentativi di matrimoni con ragazze cristiane che successivamente devono convertirsi all’islam.

Le persone gradualmente stanno tornando e si cerca di cancellare i segni della distruzione degli ultimi anni. Un percorso lungo, dopo gli anni passati, in cui gli abitanti possono cercare di curare le ferite interne, e per cui padre Jalal è la loro unica guida e speranza.

Tutto questo è possibile anche grazie al dipartimento per la ricostruzione della città gestito da Don Giorgio Jahola, un altro sacerdote Siro cattolico, che grazie al suo progetto ambizioso è riuscito a ricostruire il 50% della città. L’idea è nata semplicemente osservando una vecchia cartina satellitare. “Dopo la liberazione abbiamo formato una squadra di volontari che in 15 giorni ha fotografato 7400 abitazioni, per aver un’idea dei danni subiti. L’accesso era difficile, non c’era acqua né luce, molte bombe inesplose erano ancora nelle abitazioni” racconta padre Jahola.

Iraq, ph © Andreja Restek

“Abbiamo diviso la città in 10 zone, così gli architetti hanno potuto valutare i danneggiamenti delle case, dividendo tutto in tre categorie e hanno fatto preventivi per la ricostruzione. C’è ancora molto da fare, ed il governo non partecipa alla spesa per la ricostruzione: tutto quello che è stato fatto fino ad oggi è stato possibile grazie alle donazioni dei privati e della chiesa”.

Le persone del posto attualmente lavorano nel settore della ricostruzione, poca agricoltura e commercio, ma il lavoro scarseggia e sfamare la famiglia non è facile. Ci sono inoltre molti problemi legati alla sanità perché quella pubblica funziona ma è discriminatoria nei confronti dei cristiani del territorio. I problemi legati alla salute sono seri, compresi tumori e malformazioni, al cui sviluppo hanno contribuito le guerre combattute nel Paese durante gli ultimi anni.

Durante questi due anni si sono formate le milizie che hanno combattuto, insieme ai Peshmerga, per liberare la zona, come la NUP (Niniveh Protection Unit), presenti oggi ai molti posti di bocco a sorvegliare le città.

Gli abitanti raccontano di sentirsi trascurati dal governo centrale perché esso è debole, perché servirebbe una politica forte per un processo di ricostruzione delle aree distrutte, al quale per ora appunto stanno contribuendo solo la Chiesa e i donatori privati, e serve una mediazione forte tra i diversi gruppi che garantirebbe una pace duratura, altrimenti tutto ciò potrebbe diventare di nuovo un terreno fertile per scatenare altri conflitti settari e religiosi.

Qaraqosh fortunatamente ha i suoi guardiani come Padre Jalal Yako che sorvegliano e proteggono in ogni modo possibile gli abitanti della città, cercando di migliorare la loro vita e far ritrovare la normalità persa durante l’occupazione dei terroristi.