
di Antonio Alei (riceviamo e pubblichiamo).
Stamane ero in ascolto alla radio di una trasmissione in cui si dibatteva sul prezzo del latte praticato ai produttori nostrani. E’ emerso che il prezzo attuale non copre i costi di produzione e parecchie piccole aziende hanno chiuso i battenti.Lo stesso è avvenuto con gli allevamenti bovini e con altri settori della produzione agricola.
In sostanza nel corso della discussione si è “scoperto” che gli importatori, non solo di prodotti agricoli ma di qualsiasi genere, dall’ago al transatlantico, acquistano sul mercato internazionale al prezzo più conveniente e poi rivendono sul mercato domestico.
Nulla da eccepire, l’import-export e le politiche mercantili fanno oramai parte del cosiddetto “mercato globale” ed è appunto una legge di mercato quella di spuntare il massimo profitto dai beni compravenduti.
Qui però bisogna introdurre dei distinguo:
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i beni con alti profitti unitari, in genere, sono quelli definiti “rari” (es. oro e diamanti) o particolarmente ambiti dalla clientela (domanda che supera l’offerta del prodotto); fra questi non rientrano di certo: il latte, l’olio d’oliva, la carne, il grano tenero e duro, ecc. ecc. solo per citarne alcuni;
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compito precipuo della politica dovrebbe essere quella di controllare i prezzi di mercato, eventualmente di calmierarli qualora il ricarico sia eccessivo e, soprattutto, varare tutta una serie di misure programmatiche a medio-lungo termine atte a favorire la produzione interna e l’export almeno di alcuni prodotti di “bandiera”, il tanto strombazzato “Made in Italy”; ma di fatto, con le politiche ed i controlli attuali, questo avviene? Il parmigiano si produce con latte importato, a volte non si sa nemmeno da dove; il “prosciutto di Parma” viene prodotto anche con maiali allevati e macellati all’estero; l’olio di oliva ha spesso etichette taroccate e talora non è nemmeno di oliva; il grano duro per produrre paste DOC o “firmate” viene dal Canada o dagli USA (sperando che non sia quello dell’Oregon o di altre aree a forte inquinamento chimico/radioattivo perché allora saremmo in guai molto, molto seri); ecc. ecc.
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la cosiddetta globalizzazione avrebbe dovuto permettere ai consumatori l’acquisto di prodotti a prezzi inferiori a quelli praticati prima della sua introduzione. Le cose sono andate veramente così? O da noi si sono verificati casi “eccezionali” per cui le cosiddette “forbici” fra costi di produzione e di vendita si sono allargate anziché ridotte (a solo titolo di esempio vedasi l’andamento del prezzo del grano e di quello delle farine e dei prodotti lavorati come il pane, la pasta, i dolci, ecc.). Questo non vale solo per i prodotti agricoli, ma per quasi tutti quelli di mercato, dall’abbigliamento all’elettronica, dai carburanti ai libri, dagli elettrodomestici alle automobili, ecc. ecc.
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Tutti questi “signori” che praticano e vivono di import-export dichiarano i loro redditi effettivi? Pagano le tasse come i comuni mortali? Dichiarano le quantità effettive di prodotti compravenduti? A che prezzi comperano sulle piazze estere e con quali ricarichi vendono?
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Nei nostri porti e aeroporti, nelle zone di frontiera, nelle dogane, nei laboratori di analisi e profilassi c’è qualcuno che controlla tutto questo “tourbillon” di merci in entrata/uscita? La filiera produttiva è “sicura”? Il prodotto è realmente tracciabile? O i pomodori “Pachino” sono fatti a “Pechino”? Tanto basta cambiare una vocale! E le scarpe, che erano un nostro vanto, da dove vengono? A quali costi vengono prodotte e trasportate? A quali prezzi sono vendute nei negozi? Quali profitti ne traggono i produttori/importatori?
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Verso quali mete orientiamo l’insegnamento nelle scuole e nelle università? Turismo? Agricoltura? Meccatronica? Energie rinnovabili? Su cosa decidiamo di fare ricerca con i pochi fondi disponibili? Ci sono dei settori specifici trainanti o si va a “simpatie” come avvenuto finora?
Tutti questi ragionamento fatti per casi specifici sono estensibili alla quasi totalità dei beni, siano essi generi di prima o ultima necessità. Negli ultimi 30 anni abbiamo “svenduto” l’IRI e le aziende di maggior pregio, le industrie manifatturiere di punta e quelle di trasformazione, abbiamo dato una “mazzata” terribile all’agricoltura e al suo indotto, abbiamo quasi chiuso l’industria agro-alimentare, devastato il territorio, mandato in malora coste, spiagge, infrastrutture e monumenti, posto in mani straniere tutta la filiera della grande distribuzione e dei centri commerciali, appaltato ad altri perfino il turismo interno. Per occupare gli alberghi siamo ricorsi ai migranti, anzi li andiamo a “pescare” appositamente al largo della Libia, senza badare a chi siano veramente, a cosa vogliono realmente, a dove e a chi potrebbero essere di una qualche utilità o impiego; investiamo su di loro una montagna di soldi senza alcuna possibilità di ritorno, un vero affare nel mondo globalizzato!
Cosa ci rimane? Dove sono i controlli sul territorio e sulle merci? Quali politiche di sviluppo stiamo pianificando? Verso quali lidi veleggia la nave Italia? Verso l’Africa? Verso l’Asia? Verso il nulla? Chi c’è alla ruota del timone?
Mi auguro soltanto che navigando a vista e alla giornata non si vada nuovamente a sbattere sui nefasti scogli de “Le Scole” (isola del Giglio), sarebbe veramente troppo!