
di Davide Amerio.
Strano a dirsi, e a credersi, ma torniamo a parlare di suicidio costretti da una cronaca impietosa. Nelle settimane precedenti quello di due ragazzi già ci ferì, per i motivi e per i modi in cui avvenne. Ora il caso del giovane Dj Fabo ripropone, senza pietà, il tema del suicidio assistito, dell’eutanasia, o come la volete chiamare.
Come sempre capita in questo paese, la politica arriva in ritardo, o è assente, o è colpevole di ignavia, o di integralismo, o di sudditanza al Vaticano. Il tema è delicato, indubbiamente. Il rifiuto del principio secondo il quale ciascuno ha il diritto di decidere di porre fine alla propria esistenza nasce dalla convinzione, cattolicissima, della sacralità della vita. Poiché essa è concessa da Dio, padre supremo, non è immaginabile che i suoi figli ripudino, ad un certo punto, il dono. In questo senso esso non ci appartiene, come proprietà, ma come un prestito che dovremo rendere al momento della nostra morte naturale.
Non siamo certo qui noi in grado di dirimere questioni così complesse che spaziano dalla filosofia alla teologia. Ma riteniamo che gli essere viventi abbiano diritto di parola sulla propria vita. Chi desidera morire per principio? Crediamo nessuno. Ogni individuo nasce e cresce nel desiderio di vivere e di godere delle meraviglie del mondo. Questo sentimento in alcuni si sopisce nel tempo e, in assenza di un aiuto, l’esistenza può diventare un peso insopportabile.
Negli ultimi anni abbiamo assistito impotenti, al flagello di suicidi per motivazioni economiche. Persone spinte dalla vergogna di non essere in grado di sostenere la famiglia o di mantenere gli impegni. In questo caso di chi è la responsabilità? Chi ha spinto al suicidio queste persone? Il sistema? Le leggi? L’indifferenza? Affermare che la colpa è del sistema significa non avere un colpevole cui imputare un reato.
Nel caso invece del suicidio assistito il colpevole lo si trova. Colui, o colei, che mossi da compassione, pietà umana, di fronte a sofferenze indicibili, a condizioni di salute che rendono la vita quotidiana un tormento, decidono di aiutare chi non ce la fa più. L’assenza di una legge che regolamenti questo atto di generosità, certamente non vissuto a cuor leggero ma che segna anche l’esistenza di quelli che rimangono, è un atto di vigliaccheria.
È giusto porre fine alla propria esistenza? Non lo sappiamo e non giudichiamo. Non partecipiamo alla celebrazione ipocrita che i “sani” fanno nei confronti di chi chiede di lasciare questo mondo per trovare sollievo dalla sofferenza. Così come rispettiamo coloro che decidono di portare il peso della loro tribolazione fisica e psicologica sino all’ultimo respiro.
Proprio per questo, con convinzione, ribadiamo il valore, e il diritto, della scelta personale. Lontana dai riflettori, dai demagoghi e dagli integralisti. Nessuno ha il diritto di giudicare del dolore del prossimo. Nessuno si può immedesimare nel travaglio quotidiano, fisico e psicologico, di chi, per incidente o malattia, non può più condurre una vita “normale”.
Invece di scontrarsi sulla pelle degli altri, le forze politiche si adoperassero realmente per il benessere della collettività, compresa la salute pubblica e il sostegno materiale e psicologico a chi soffre, forse avremmo meno patimenti e meno desideri di auto annientamento. Già questo sarebbe un miracolo e il miglior modo di celebrare, veramente, la vita, senza ipocrisie.
(D.A. 02.03.17)