
«Ma se un bambino è cresciuto in una complessa situazione familiare, userà con altrettanta naturalezza la menzogna e senza volerlo dirà ciò che conviene al suo interesse; il senso della verità, la ripugnanza per la bugia gli sono estranei e inaccessibili, e pertanto egli mentirà in piena innocenza».
Nietzsche F., Umano troppo Umano, 1979.
Prima di iniziare la descrizione dei comportamenti più utilizzati dai Serial Killer, vorremmo orientare il nostro focus su alcuni aspetti che possono, in qualche modo, ampliare la conoscenza del problema circa la libertà e la volontà della persona. Come studiosi non possiamo accontentarci di stabilire attraverso elenchi di meccanismi quali siano i comportamenti più idonei e quali quelli patologici; quindi, proveremo a spostare, per quanto ci è possibile, il normale limite della comprensione per non cadere in valutazioni superficiali e banali. Cosa ci rende innocenti o colpevoli rispetto alle leggi dettate dalla comunità e dalla scienza del diritto?
La libertà di intendere e di volere. Quindi, per le norme, la questione gira intorno a due aspetti fondamentali e tra di essi collegati: la ragione e il volere. La scienza che studia il comportamento e la mente umana, per quanto riguarda gli aspetti cognitivi, utilizza un continuum bidimensionale, due rette lunghe quanto la ragione stessa dell’uomo; essa è rappresentata dall’asse delle ascisse che ne determina, grazie a tante tacche e numeri, il grado, la frequenza e l’intensità di qualsiasi cosa appartenga al pensiero della persona.
Per quanto riguarda la volontà, tutto si complica perché questa energia, il moto propulsore che rappresenta la vita, nessuno fino ad ora l’ha mai misurata in modo accettabile. La ragione sì, la volontà no. E ciò vale per altre emozioni che, proprio perché emozioni, sono instabili e inafferrabili. Ma se la logica umana, che edifica scienze “esatte”, così precisa, analitica e sintetica, non è in grado di spiegare le emozioni fondamentali, a cosa serve? Se non possiamo fare luce sui moti e sconvolgimenti trasformativi, cosa ci peniamo a fare?
La scienza prova a dare delle sicurezze all’uomo, per sostenerlo in un viaggio misterioso e spesso pauroso. Le teorie nascono da minime opinioni che divengono poi convinzioni; nello stesso tempo però tolgono inevitabilmente la speranza e l’illusione all’individuo, proprio ad un essere fatto soprattutto di sogno, e che non può essere colto nella sua “soggettività da nessuna scienza oggettiva”.
Tutte le discipline, branche e correnti di pensiero, sono il prodotto di processi mentali che contengono inevitabilmente l’errore, poiché frutto dell’insieme di comportamenti che non sono altro che meccanismi di difesa, la migliore risposta che l’uomo può dare all’incessante angoscia del divenire. In ultima analisi, sembra proprio che l’uomo di scienza produca strumenti teorici e pratici per arginare in primis le sue paure, e limitare le proprie fantasie e la sue voglie di sconfinare, che sono rappresentate dall’arte, espressione anch’essa di altri meccanismi di difesa.
Ciò che intendiamo dire è che tali dinamiche, da sole, non sono sufficienti a spiegare, il comportamento della persona, la patologia psichica e le sue espressioni, ma possono farci avvicinare alle dinamiche profonde di alcune persone che la società considera “mostri”. Più avremo la lucidità di osservare senza pregiudizio atti “disumani” compiuti da persone che non sono tanto diverse da noi, e maggiore sarà la capacità di arrivare a vedere l’ombra che insieme alla luce traccia il profilo di ogni essere.
Proprio allora, forse, capiremo che nessuno è condannabile, ma tutti punibili o perdonabili. Sappiamo che è l’angoscia a innescare il processo che produrrà i meccanismi di difesa, poiché agisce come segnale della presenza di pericoli (esterni o interni) che minacciano l’Io, il quale mobiliterà poi le proprie difese e che ogni fase dello sviluppo mentale ne è caratterizzata da una particolare.
Valutando alcune biografie dei serial killer più famosi, alle loro origini, le loro famiglie, le loro paure, ci accorgeremo che le differenze più grandi con il nostro modo di vivere sono quelle poste dal rapporto con l’altro come funzione e la relazione chiara tra il problema del male e la facoltà di pensare, ovvero la responsabilità del singolo di discernere.
Il comportamento omicidiario seriale può essere considerato il punto di arrivo di un processo interno dell’individuo che può durare molti anni e passare attraverso una serie di stadi intermedi. La maggior parte degli esperti che si sono occupati di omicidio seriale hanno posto l’accento sull’importanza delle esperienze traumatiche subite dal soggetto in ambito familiare per spiegare l’insorgenza di tale comportamento. Analizzando la casistica internazionale, si nota che, nella maggior parte dei casi, l’assassino seriale proviene da quella che può essere definita una “famiglia multiproblematica”, che non consente lo sviluppo di modelli di comunicazione adeguati.
“Abbiamo incontrato la fantasia come strumento che permette al bambino di sfuggire al mondo dei suoi carnefici; nella fantasia il piccolo ha il controllo della situazione, nella fantasia può reindirizzare l’ostilità e la violenza di cui è bersaglio, dirigendola verso gli altri, (…) in quasi tutti gli assassini seriali, sognare a occhi aperti, fantasticare un’esperienza sadica e brutale con la vittima è un momento comune e centrale. Il comportamento che l’omicida tiene sulla scena del crimine si modella appunto su tali fantasie, che anticipano l’azione (…) Uccidere diviene il mezzo per dominare paure inesprimibili. La sensazione di onnipotenza, tuttavia, è inesprimibile. Non è più possibile rinunciarvi.” (Lucarelli, Picozzi)
L’infanzia rappresenta un momento fondamentale per la salute fisica e mentale del futuro adulto: si tratta dell’ingresso alla vita, e la formazione di un buon legame di attaccamento fra il bambino e chi si prende cura di lui, indubbiamente agevola il percorso. Procedendo nella costruzione del legame, il bambino si identifica e cerca attivamente il contatto con il caregiver: la dissoluzione o la mancata formazione del legame di attaccamento può produrre un bambino, e un futuro adulto, incapace di provare empatia, affetto o rimorso per un altro essere umano e, fra tanti esiti possibili, c’è anche lo sviluppo del comportamento omicidiario seriale.
Ciò può fornire una spiegazione della freddezza, della mancanza di connessione con gli altri, spesso riscontrata in soggetti che commettono azioni criminali: in assenza (reale o percepita) di legami umani, la coscienza non può formarsi, né tantomeno la capacità di auto-osservazione e autocritica, così importante nel rapporto con se stessi e con gli altri. Ne deriva una povertà emotiva che viene, nel tempo, fonte di in tollerabile tensione e spinge il soggetto verso la ricerca di scosse fisiche, sensazioni forti per affermare un’esistenza che altrimenti sarebbe vuota.
“Qualunque sia il trauma, nella perversione l’ostilità prende la forma di una fantasia di vendetta, celata nelle azioni che costituiscono la perversione, e serve a convertire il trauma dell’infanzia nel trionfo dell’adulto (…) Una perversione è un modo adottato per rivivere il reale trauma (…) storicamente sperimentato, e nell’atto perverso il passato viene cancellato. Questa volta il trauma si trasforma in piacere, in orgasmo, in vittoria.” (De Zulueta F.)
L’estensione del danno psicologico sofferto dipende, in misura pressoché uguale, dall’età del bambino e dalla durata dell’interruzione del ciclo di attaccamento: in linea generale, un’interruzione durante i primi mesi di vita provoca danni maggiori, così come periodi di frattura prolungati (Newton, Serial Slaughter, cit.,pp.9,10).
La questione che si pone alle nostre menti è anche la seguente: le persone che commettono omicidi seriali sono psicopatologici? Se lo sono, allora, non sono condannabili, ma andrebbero sostenuti e aiutati nella loro difficile esistenza. Se sono colpevoli, allora, non sono patologici. È la psicologia che deve sciogliere il nodo più difficile di fronte alla questione dell’ammissibilità dell’atto crudele da parte di qualsiasi uomo.
Con coraggio la psicologia deve necessariamente abbandonare ogni desiderio di catalogazione e giudizio, ed aprirsi ad analisi più profonde, in quanto il male e il bene hanno una medesima origine e un rapporto complesso e spesso incomprensibile. La più grande differenze sta nella loro modalità di radicarsi e di come condizionano il contesto in cui si sviluppano; etichettare uno dei due come “patologia” significherebbe porre su un piano di conoscenza diverso una parte dell’individuo, e quindi chiudersi alla verità sull’insondabilità del nostro logos e alle sue misteriose dinamiche.
di R. Minotti e P. Szczepanczyk pubblicato su www.neuroscienze.net
Bibliografia
Arendt H., (2013), La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli.
Mastronardi V., (2014), I Serial Killer, Roma, Newton.
Nietzsche F., (20034), Umano troppo Umano, Roma, Newton. Milano
Sartre J. P., (1939), Il Muro, Torino, Einaudi, 1995.