Rifugiati senza rifugio

Per i rifugiati il problema maggiore è quello abitativo. Nei vari paesi essi si ingegnano dando vita a ghetti marginalizzati (baraccopoli, favelas, sum, barrios...)

Il problema abitativo riguarda in particolare le fasce di popolazioni più povere, che vi rispondono auto-costruendo e dando vita a ghetti che prendono il nome di baraccopoli, favelas (Brasile), slum (Sud Africa) o barrios (Argentina, Cile, … ). Ma ci sono anche gli enormi campi caravan degli Stati Uniti. E che dire dei nostri emigranti interni che da Sicilia, Calabria, Puglia salivano nelle capitali del triangolo industriale, Genova, Torino, Milano negli anni 60 e 70 del Novecento a cui nessuno voleva affittare casa?

Il 12 gennaio Ali Moussa è morto intossicato nel rogo generato da un corto circuito in un ex mobilificio occupato. Conoscevo Ali, era stato nel centro dove lavoro. È morto per salvare i documenti. Quelle carte che, se ottenute, valgono come oro, anche se nella realtà ti garantiscono solo il diritto di respirare e niente più. È rientrato nel rogo per cercarle e si è perso anche lui. Parlava male italiano Ali, a volte lo prendevo un po’ in giro e lui rideva col suo dentone d’oro retaggio di un mondo che non c’è più. Vissuto e cresciuto con la guerra, con cannonate, pallottole, ferite, malattie e roghi. Un rogo se l’è portato via. Nel gelo italiano di un capannone di Aiazzone, quello di «Provare per credere». Ali ci ha creduto e provato a modo suo. La Somalia prima e l’Europa poi lo hanno abbandonato.

Ali aveva un permesso di soggiorno con tanto di protezione internazionale accordatagli dal Governo Italiano. Era “regolare”, come piace dire a coloro che puntano il dito sulla non conformità, sull’irregolarità appunto. Aveva, secondo le leggi europee e quella italiana, gli stessi diritti di chi scrive, fatto salvo per il diritto di voto. Nell’ex capannone situato nel Comune di Sesto Fiorentino, ormai periferia di Firenze, vivevano in 100, tutti con permesso di soggiorno: nessun clandestino insomma.

La maggior parte degli occupanti provenivano dal Corno d’Africa: Somalia, Etiopia, Eritrea. Alcuni di loro facevano lavori stagionali, saltuari o intermittenti, come molti nostri connazionali. Cosa ci facevano in quel capannone industriale abbandonato senza riscaldamento, né luce, né acqua calda? Semplicemente non avevano un altro posto dove andare. Non erano in grado di affittare nessun tipo di alloggio disponibile a prezzo di mercato e probabilmente non avevano più diritto ad un posto in una delle strutture del sistema di accoglienza per rifugiati o richiedenti asilo.

La casa è un tassello fondamentale nel processo d’integrazione – parola spesso criticata – diciamo, in questo caso, d’insediamento. Le persone che vivevano in quel capannone sono emigrate non per volontà, ma perché costretti – è bene ribadirlo – e non per cominciare un moto perpetuo, ma per fermarsi, mettere radici, prosperare, vivere in un luogo sicuro, mandare a scuola i propri figli, vivere una vita dignitosa e serena. In due parole: star bene. Come si può studiare, come ci si può mantenere o cercare un posto di lavoro senza un luogo dignitoso dove far ritorno la sera, dove cucinare, riposare, riordinare i pensieri, prendersi cura di sé? Questo concetto vale per tutti, qualsiasi essere umano, sia autoctono che migrante.

Il problema abitativo riguarda in particolare le fasce di popolazioni più povere, che vi rispondono auto-costruendo e dando vita a ghetti che prendono il nome di baraccopoli, favelas (Brasile), slum (Sud Africa) o barrios (Argentina, Cile, … ). Ma ci sono anche gli enormi campi caravan degli Stati Uniti. E che dire dei nostri emigranti interni che da Sicilia, Calabria, Puglia salivano nelle capitali del triangolo industriale, Genova, Torino, Milano negli anni 60 e 70 del Novecento a cui nessuno voleva affittare casa?

Spesso e volentieri, i migranti non hanno reddito e rientrano al loro arrivo nella fascia di povertà. La loro vulnerabilità si lega a molti fattori: alcuni peculiari, altri di contesto che condividono con i cittadini della comunità di approdo. Ovviamente il percorso migratorio, che per chi scappa da contesti di guerra o da situazioni di profonda instabilità socio-politica è fatto di violenze e abusi fisici e psicologici cominciati nel Paese di provenienza, è uno dei fattori peculiari del migrante. La crisi economica e occupazionale, invece, è un fattore di contesto globale che riguarda tutti i cittadini di un determinato Paese o area geografica.

Ma torniamo al povero Ali o ad uno qualsiasi dei rifugiati in arrivo nel nostro Paese. Come finisce in un capannone, in una vecchia scuola o in un appartamento abbandonato? Cosa gli accade? Attualmente un richiedente asilo, dopo essere entrato via mare o via terra nel nostro Paese, passa in un centro di prima accoglienza: una volta erano solo i CARA (Centri d’Accoglienza per Richiedenti Asilo), ora ci sono anche i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) gestiti direttamente dalle Prefetture. È qui che si approda nell’attesa di ottenere o meno il proprio permesso di soggiorno. Se  lo si ottiene,  si dovrà entrare in un circuito di seconda accoglienza chiamato SPRAR: Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati. La durata della permanenza nella seconda accoglienza è di solito di 6 mesi, non sempre prorogabili, nei quali si studia un po’ la lingua italiana e si hanno alcune possibilità di formazione lavoro.

È evidente che ogni percorso di accoglienza è individuale e la sua riuscita dipende da molti fattori, alcuni legati all’individuo, come la sua scolarizzazione pregressa, la sua capacità di adattamento, il suo equilibrio psicofisico; altri vincolati al centro di accoglienza dove approda, alla formazione degli operatori, all’orientamento politico dell’amministrazione di quel territorio, al suo sviluppo economico e così via. Lo spaesamento geografico, sociale ed emotivo spesso sono fortissimi. Pensiamo a noi in una giornata di lavoro nella quale abbiamo trovato molto traffico per arrivare in ufficio o avuto un diverbio con la nostra compagna o il nostro compagno e magari per questo abbiamo la testa altrove, solo per fare un esempio. Ecco, facciamo un parallelo con la testa di qualcuno che deve stare in un’aula di scuola, luogo dove non è mai stato in vita sua, che non sente la mamma da mesi, o addirittura che la mamma l’ha persa, uccisa in qualche conflitto, magari insieme all’intera famiglia; oppure quell’aula, con la sua luce, gli ricorda uno spazio dove è stato percosso e violentato.

Questi fattori, solo per citarne alcuni, sono fondamentali nella buona riuscita di un’accoglienza o nel suo fallimento. Per cui alcune persone, un numero davvero esiguo purtroppo, riescono a prendere il massimo da ciò che lo Stato – non direttamente, ma attraverso un sistema operativo condotto da una miriade di cooperative e associazioni, a volte dalla gestione quanto meno opaca – mette loro a disposizione. Queste persone, nella migliore delle ipotesi, riescono a trovare un lavoro con un reddito medio da 800€ mensili e a condividere un appartamento insieme ad altri connazionali in una remota periferia cittadina o in qualche paese della provincia. Ma rispetto agli altri possono dire di avercela fatta, almeno per un po’.

Già e gli altri? La grande maggioranza? Come già è stato detto, dopo un tempo variabile sono fuori dal circuito di accoglienza SPRAR, non ci sono alternative per loro. Ma fuori dove? E con quali mezzi? Escludendo chi decide di tentare un approdo in un altro Paese europeo, sapendo che rintracciati verranno rispediti indietro secondo gli accordi di Dublino, gli altri restano qui, tra noi. E ciò significa che inizieranno a ingrossare le fila degli “esclusi”. E gli esclusi , si sa, vivono per strada.

Gli ultimi dati ufficiali dell’ISTAT sui cosiddetti senza fissa dimora sono del 2012 e dicono che in Italia ce ne sono fra i 47.000 ed i 50.000. Sono quelli intercettati, che hanno accettato una domanda, un contatto. Il 60% di loro sono stranieri. È evidente che sono molti di più. Oggi il problema abitativo non riguarda più segmenti ridotti della popolazione. La fascia di povertà si è ampliata verso l’alto, incidendo in maniera decisa sul ceto medio, ormai sempre più impoverito dalla crisi che in molti Paesi ha eroso il patrimonio di risparmi accumulati dalle famiglie. La crisi dei mutui, dagli Stati Uniti all’Europa, ha polverizzato i risparmi investiti nell’acquisto di case, immettendo sul mercato migliaia di immobili e facendone crollare il prezzo, mentre il costo degli affitti è rimasto sostanzialmente invariato. Affittare significa dare garanzie, prima di tutto di reddito. Per quel che vale, oggi serve comunque un contratto di lavoro a tempo indeterminato e sono necessarie subito almeno tre mensilità, compresa la caparra, un anticipo che pochi possono permettersi. E poi, se si è stranieri, le agenzie fanno muro.

Ciò detto, dove possono andare le persone con regolare permesso di soggiorno, socialmente deboli, senza reti familiari? Che risposte mette in campo il nostro Stato per chi ha pieno diritto di vivere e soggiornare nel nostro Paese? Un comune come quello di Firenze, con 382.808 residenti e con una popolazione straniera residente di 128.509 (fonte ISTAT 2016), ha 30 posti letto – solo 30! – destinati agli stranieri lavoratori. Il comune lo chiama “pensionato lavoratori”, ma che tipo di sistemazione è questa? Una sistemazione provvisoria di un anno, in condivisione con altri, che ha il pregio di costare poco: dai 60 ai 100 € al mese.

E che dire delle politiche sull’edilizia pubblica, ovviamente per tutti, cittadini italiani e non? In Italia sono praticamente assenti. Anche se negli altri Paesi europei si è continuato a investire sull’edilizia popolare, la media europea è del 20% per gli alloggi pubblici: il 36% è concentrato in Olanda e il 22% nel Regno Unito. L’Italia risponde con un misero 4% e un’offerta abitativa pubblica che rispetto agli anni ‘80 è scesa del 90%. Ciò vuol dire che non costruiamo più niente e che abbiamo un patrimonio abitativo spesso non assegnato perché in condizioni fatiscenti.

Dunque, dove doveva dormire Ali? Dove poteva tenere le sue poche cose? Quali reali alternative aveva rispetto ad una occupazione illegale? Le opzioni ci sono, ma le scelte spettano alla politica. Optare per delle politiche abitative diverse è possibile. Recuperare l’enorme patrimonio immobiliare dei Comuni e delle Regioni abbandonati e inutilizzati, le caserme dismesse dell’esercito, gli edifici delle ex partecipate pubbliche, è possibile.  Si preferisce svendere questi beni pubblici a grandi compagnie d’investimento per costruire alberghi a cinque stelle e far fare loro profitto, invece di rigenerarli e affittarli a tariffe calmierate che anche lavoratori e lavoratrici precari, saltuari o comunque a basso reddito possano pagare, permettendo quindi agli enti pubblici di recuperare le spese vive e rivalutare l’intero patrimonio. Beni comuni che sostengono cittadine e cittadini comuni. Spazi liberati che ridanno dignità e libertà alle persone e impediscono morti di freddo o di fuoco come quella di Ali.

Immagine di copertina: rifugiati a Belgrado. Foto di G. Astiaso (dalla sua pagina Flickr).

da Wots di Jacopo Landi alla pagina http://wots.eu/2017/01/24/rifugiati-senza-rifugio/