
di Manfredo Pavoni Gay
La base navale di Aratù, uno dei porti più importanti del Brasile, circonda una piccola comunità di afrodiscendenti che si sono autodefiniti “comunità remanescente do Quilombo” e da poco una parte della loro terra è stata certificata dall’INCRA (Istituto della riforma agraria). Il Quilombo, che si trova all’interno della base della marina militare brasiliana, fa parte di queste comunità, e la comunità vive in questa zona chiamata Rio Macaco da circa 150 anni. La base militare è arrivata dopo, negli anni sessanta in piena ditattura. Molte case sono state distrutte e molte famiglie sono state espulse dal loro territorio con violenza e sopraffazione. Una legge del 1988 riconosce il diritto alla terra alle comunità ancestrali degli afro discendenti ma qui nello stato di Bahia è un riconoscimento ancora formale come denuncia la CPP de Bahia (Commision Pastora da Pesca) poichè l’istituto della riforma agraria (Incra) ha certificato la terra soltanto di poche comunità e la maggior parte delle richieste è bloccata da ricorsi legali presentati da fazenderos e in alcuni casi dalle prefetture che vogliono speculare sulle terre occupate dalle comunità.
Il Quilombo di Rio Macaco ha subito in questi anni duri attacchi da parte dei militari che si sono impossessati dei territori. Oggi per entrare nella comunità bisogna passare dalle sbarre della marina che controlla i movimenti dei residenti e non permette a nessuno di entrare se non si è registati come facenti parte del quilombo. Sono solo 3 i chilometri che separano la base dalla comunità, ma sono chilometri lastricati di difficoltà. Grazie alla Commissione Pastorale della Pesca riesco a entrare in un passaggio alternativo, tra reti e muri dove i quilombola si sono aperti dei varchi. La comunità è fatta da case di terra e canne di bambù circondate da villette di lusso in muratura in cui vi è una piscina un campo da tennis ma riservati ai soli militari. Un muro bianco circonda la comunità in cui manca tutto. Scuola, salute e strade.
Maurícia Maria de Jesus ha 105 anni e vive nel Quilombo di Rio Macaco da quando è nata. Figlia di schiavi racconta che insieme al marito ha anche aiutato alla costruzione delle case della base navale. “Dopo che abbiamo lavorato per loro ci volevano mandare via. Io da qui me ne andrò solo quando sarò morta. I Militari non rispettano nessuno e il mio popolo sta soffrendo molto. Mi hanno minacciato anche con le armi perché andassi via ma io gli ho detto: sparatemi tanto alla mia età”. Madre di tre figli nonna di 17 nipoti e 50 bisnipoti Mauricia è sicura che i suoi discendenti saranno proprietari di questa terra.
Rosmari è una donna di 35 anni ed è la presidente della comunità. “Ora stiamo portando avanti una battaglia legale per poter certificare la nostra terra ed avere diritto di viverci e lavorare. L’Incra ci ha riconosciuto 104 ettari ma noi chiediamo che ci vengano assegnati 200 ettari, perché la nostra terra storicamente era di 900 ettari che ora sono in mano alla marina. Due anni fà sono stata aggredita alla porta di entrata della base, mi hanno tirato fuori dalla macchina hanno mandato via le mie due figlie piccole mi hanno picchiato buttato a terra e poi arrestato. L’accusa era quella di aver risposto male ad un militare che non mi lasciava passare ma per fortuna la loro telecamera a circuito chiuso ha filmato la scena e mi hanno dovuto liberare. Ora vivo con la paura che mi possano uccidere ma continuerò a lottare per il riconosciemnto della nostra terra”. Rosmari fa parte della leadership quilombola e viaggia in tutto il Brasile per raccontare la storia della comunità. Ha dovuto ritirare le proprie figlie dalla scuola media in seguito alle minaccie di morte ricevute e fa parte di un programma di protezione, anche se non ha molta fiducia nella protezione del governo. “La marina militare fa parte dello stato brasiliano, come posso credere nella protezione di un governo che permette la continua violazione dei diritti umani degli afrodiscendenti che nello stato della Bahia rappresentano la maggioranza della popolazione?”
L’associazione quilombola insieme agli avvocati dei lavoratori rurali dello stato di Bahia ha denunciato agli organismi internazionali; ONU, OIT (Organizzazione Internazionale del Lavoro) e l’OEA (l’Organizzazione degli Stati Americani), la situazione in cui sono costretti a vivere i discendenti degli schiavi africani che hanno costruito con il loro lavoro forzato il Brasile. La comunità quilombola spera che questi organismi possano esercitare una pressione nei confronti del governo brasiliano che gli sia di aiuto nel difficile cammino per il riconoscimento dei loro diritti storici.
Dopo 400 anni di schiavitù che ha prodotto una colossale perdita di memoria e di identità delle popolazioni africane sequestrate in massa e portate nelle americhe come forza lavoro, la società brasiliana forse non ha fatto interamente i conti con questa memoria. Prima di andare via Rosmari ci tiene a mostrarmi la scuola che i residenti hanno costruito con terra e canne di bambù come usavano costruire gli abitanti degli antichi Quilombo. Fino alla certificazione di una parte di territorio fatta dall’Incra i quilombola non potevano nemmeno piantare la tradizionale farina di mandioca perché i militari bruciavano tutto. Rosmarie mi chiede anche di portare alla facoltà di analisi chimica parte di diversi alberi da frutta che sono stati secondo lei avvelenati dai militari e che infatti appaiono secchi e cadenti.
Nello stato di Bahia circa 1500 comunità afrodiscendenti attendono ancora il diritto di vivere e lavorare nella propria terra. Il giorno termina velocemente nella stagione invernale e la mia visita bruscamente si interrompe. Non possiamo piu passare dal sentiero alternativo perchè con l’oscurità potrebbe essere pericoloso. Così si decide di tornare con una auto messa a disposizione da un residente del quilombo, passando per il controllo della marina. “Se ti trovano qui puoi anche rischiare l’espulsione dal Brasile, mi spiega la leader quilombola, e così addio al tuo dottorato sui quilombo”. La soluzione è che mi sistemi nel bagagliaio dell’auto tanto sono solo 3 i chilometri che dividono il quilombo dalla base militare. Tre chilometri che per i quilombola e le loro famiglie restano una distanza infinita.
M.P.G. 29.3.16