
di Massimo Bonato.
Il libro nella sua forma cartacea non è destinato a sparire per svariati motivi, ma principalmente perché è un simbolo e i simboli non muoiono, al massimo vengono sostituiti da altri simboli.
Sono abbastanza tardo, e mi ritrovo spesso a parlare da solo formulando risposte che avrei dovuto saper dare con prontezza e acume al momento del bisogno. Così, quando un giovane a me vicino se ne uscì a cena sostenendo che “tanto la carta sparirà del tutto” perché le nuove generazioni sono abituate al cellulare, al computer che viene fatto adoperare anche a scuola, non trovai di meglio che imbastire una filippica che cominciava con il valore del segno grafico come estensione dell’Io per finire con l’utilità logico-linguistica dell’insegnamento del latino, chiosando indispettito che una considerazione come la sua la si poteva raccogliere comodamente in qualunque bar, dal centro alla provincia.
Poi però ci pensai e ripensai, perché tutto ciò che avevo detto si poteva dire a caldo ma non era sufficiente, non aveva nessuna argomentazione forte e infine convincente.
Fine del libro di carta?
Nei gruppi di discussione su Facebook dedicati a scrittura e letteratura periodicamente sboccia un post che raccoglie impressionante seguito di critica sul tema: secondo voi il libro di carta sparirà? Siete più favorevoli al libro di carta o all’ebook? Secondo voi l’ebook soppianterà il libro cartaceo? E via discorrendo − se in un prodotto cambiamo l’ordine dei fattori il risultato non cambia.
Si leggono nelle risposte tutte le ragioni che ogni lettore troverebbe in se stesso: e l’odore della carta, e l’apprezzamento per il carattere, e la possibilità di manipolare il testo con sottolineature e note a margine, e il senso di possesso, e il volume ponderoso o meno, e l’abitudine e…
Nessuno parla mai della esibizione del libro.
Il libro come esibizione.
Enrico Baj, pittore, nonché pittore ‘patafisico di rilievo mancato qualche anno fa, raccolse in un volume alcuni suoi saggi, pensieri eterogenei (E. Baj, Cose, fatti, persone, Eleuthera 1988). Tra questi uno sul collezionismo. Il collezionismo, secondo Enrico Baj è funzione del potere, perché a ogni oggetto corrisponde una grandezza, oltreché un costo, sicché chi ha scarsa possibilità di ampi spazi da occupare, sarà di converso attratto dal collezionismo di cose minute (orologi, francobolli, pacchetti di sigarette, monete, bambole, boccette di profumo, mignon di liquori ecc.); d’altro canto chi di spazi non ha problemi, problemi non avrà a tenersi in casa, e a esibire, quadri e sculture, automobili da corsa o di lusso, abiti antichi, mobili d’antiquariato ecc. A parte l’immediata distanza tra il costo di un orologio e quello di una macchina d’epoca, resta quella tra una vetrinetta e i 300 mq appena dietro il salone di rappresentanza o nella dépendance della villa, là seguendo il vialetto oltre la piscina.
Il libro però viene esibito da tutti. Poco o tanto sia lo spazio a disposizione; ricco o no che sia il lettore; pochi o tanti se ne abbiano, importanti o quelli comprati obbligatoriamente per la scuola dell’obbligo, i libri su uno scaffale o una vera e propria libreria finiscono sempre e sempre con il dorso dal titolo ben visibile.
Sono cioè la nostra conoscenza. Quel che sappiamo, gran parte di esso, lo dobbiamo ai libri, e sempre di più da decenni, dalla scomparsa almeno di quella cultura materiale che a tutti insegnava come cavarsi da vivere e un po’ di filosofia spicciola senza necessariamente dover saper apporre la propria firma su un documento.
I libri fanno arredamento. Li fanno in plastica o cartone, finti, per riempire gli scaffali dell’Ikea, dei mobilifici in genere e dei saloni di design. C’è chi li compra in blocco soltanto per farne apparire il dorso sullo scaffale sopra la televisione. Il libro è collezionismo ma va ben oltre questo, perché se il collezionismo è potere, potere di conoscenza sul tema di ciò che si colleziona (si suppone che chi colleziona orologi lo faccia perché ne sa anche più di noi sull’oggetto orologio); il libro è potere diffuso. E si potrebbe aggiungere misterioso, almeno fino a che, obtorto collo (e non in senso metaforico) non si percorrano i dorsi dall’alto verso il basso e viceversa fino a farsi un’idea di quali sono gli interessi del nostro ospite.
I libri li espongono tutti. Gli ebook no, ne puoi esporre uno solo, a meno che al tuo interlocutore non voglia ammannire con pervicacia l’intero catalogo di libri in esso scaricati.
Il possesso del libro.
Che siano due o duemila, i libri chi li ha li rende visibili, perché i libri rappresentano il potere della conoscenza, sono simbolo della conoscenza. Ovvio che il volume, la ponderosità di una libreria, aumenti proporzionalmente e quantitativamente il valore di potere di chi i libri possiede, dal momento che possedere duemila libri non ha lo stesso valore che possederne due (ripeto il verbo “possedere” perché sia chiaro che il potere si “possiede”, la conoscenza anche). (Al pari del fruitore di ebook, anche chi si appoggia alla gratuità della biblioteca pubblica per soddisfare le proprie letture dovrà verbalizzarlo, dirlo, se vuole, e lo dirà, perché neanche i libri che lui ha letto si “vedono”, al pari del lettore di ebook).
I libri si devono vedere.
Allora direi adesso al mio giovane interlocutore: perché i libri di carta non moriranno mai? Perché sono un simbolo, un simbolo fortissimo e radicatissimo, e sono simbolo di potere. Il potere della conoscenza. Di una conoscenza che ciascuno può esibire o millantare, dall’operaio al docente universitario, dal contadino all’industriale, dalla casalinga allo scienziato.
Vorrei chiedere a lui, come a chiunque altri: pensateci, quante volte avete visto un’intervista resa in bagno, a passeggio, o mentre si allatta o si fa colazione? Se ci si prendesse la briga di vedere quante librerie compaiono in televisione alle spalle degli intervistati ci si renderebbe conto che discussioni sulla tenuta della carta come supporto scrittorio e sul futuro del libro cartaceo è perfettamente vana.
Finché il libro sarà simbolo di potere sarà lì, a campeggiare – e a impolverarsi – su uno scaffale. Perché i simboli durano millenni.
(M.B. 21.01.18)