
di Claudio Giorno
Non so voi, ma io se incappo con lo zapping nella riproposizione di uno dei film di Don Camillo e Peppone ne vengo catturato. Mi sorprendo ad attendere con ansia il salvataggio della vecchina minacciata dall’alluvione nella cappella dove si era recata a pregare, a fare il tifo per Cervi-Peppone che almeno una volta non le prenda da Fernandel-Doncamillo che si è già rimboccato le maniche della tonaca dopo aver girato il crocefisso (parlante come il grillo di Pinocchio). Ogni angolo del paese scelto per la trasposizione cinematografica dei romanzi di Guareschi mi è talmente familiare che quando – risalendo dal delta dl Po – ci sono capitato in un assolato pomeriggio di maggio dello scorso anno son rimasto contrariato dalla luce accecante e soprattutto dai colori, che mi disturbavano il ricordo in bianco e nero che ne conservo gelosamente. Brescello. Il giornalista-scrittore aveva lasciato indefinita la localizzazione, ma per i film fu scelta la “location” che ancora oggi – in questo paese sfiorato dal terremoto – viene evidenziata con targhe e sagome dei due indimenticabili protagonisti; e se si arriva fino alla stazione si resta delusi che al posto di una sbuffante vaporiera con agganciate delle cigolanti “vetture centoporte” vi transitino delle anonime automotrici diesel. Ma soprattutto che non ne discendano né il prete divenuto monsignore, né il sindaco eletto senatore. Ma ancor più cocente rischia d’essere la delusione se le conseguenze dell’inchiesta in corso dovesse sancire il crollo di questo simbolo del “mondo piccolo” (così si intitolava la raccolta di racconti quando – nel 1948 – venne pubblicata per la prima volta). Un crollo evitato nonostante il recente e devastante terremoto che lo ha soltanto lambito, una distruzione tante volte scongiurata nonostante le periodiche e terribili alluvioni ricostruite in modo toccante in alcuni dei film. Perché oggi, il paese posto sotto la protezione dell’argine maestro del grande fiume è stato afferrato dai tentacoli di una piovra che non viveva un tempo in acqua dolce, ma le cui propaggini si estendono fin sui monti e stanno ormai soffocando tutta la penisola, a cominciare dalla Capitale: la Mafia.
La “Commissione di Accesso” nominata dal Prefetto, il 10 dicembre prossimo dovrà stabilire se il Consiglio Comunale dovrà essere sciolto per le infiltrazioni mafiose; potrebbe essere il primo caso in Emilia e Romagna! E in ogni caso il 28 ottobre prossimo alla fiera di Bologna si aprirà non un padiglione trasferitovi da Expo, ma un processo dal nome sconcertante: Emilia. Dovrebbe servire ad accertare la colpevolezza di un numero impressionante di imputati: 219. Più le parti civili, gli avvocati, i giornalisti ecc hanno consigliato la scelta della fiera in luogo del tribunale, qualunque aula del quale non sarebbe risultata sufficientemente capiente. Dovrà essere confermata e circostanziata la colpevolezza degli imputati nella conclamata infiltrazione di ‘ndrangheta nel cuore della regione rossa, a pochi kilometri dalla Cascina dei fratelli Cervi e dalla città di Reggio Emilia, medaglia d’oro della Resistenza, ma ormai strettamente legata non solo per similitudine toponomastica a Reggio Calabria, visto che è divenuta sede di una ‘ndrina che il procuratore nazionale antimafia ha definito forte e monolitica.
Sabrina Pignedoli, coraggiosa giornalista de Il Resto del Carlino sta per pubblicare un libro dove oltre alla raccolta dei suoi numerosi articoli si potranno trovare molti spunti di riflessione. Riflessioni come quelle di Enrico Bini, attualmente sindaco di Castelnovo Monti, una manciata di kilometri da Brescello, ma fino a qualche anno fa presidente della Camera di Commercio della città “medio-padana”: sono stati ospiti della trasmissione “restate scomodi” andata in onda il 9 ottobre su rai-radio1 e hanno tracciato un quadro agghiacciante della deriva in cui è precipitata la regione un tempo più virtuosa del belpaese. A cominciare – appunto – dal poco edificante gemellaggio tra la Brescello di Doncamillo e Cutro, paesino in provincia di Crotone, il cui “don” – che non è un sacerdote – si chiama Nicolino Grande Aracri fondatore della ‘ndrina che porta il suo nome e che arriva nel reggiano a seguito di un confinato – Antonio Dragone – e, dopo l’immancabile “guerra di mafia”, necessaria per stabilire il predominio, vi si insedia. E così che Brescello cessa di essere il luogo del sano conflitto tra destra e sinistra…Non solo perché sono categorie astratte che non esistono più, ma soprattutto perché si scopre prima che altrove il cemento unificante che i leader contemporanei usano a betoniere: la trasversalità redditizia di politica e affari. Una frase di Marcello Coffrini che ha ereditato in concreto il ruolo di fantasia di Peppone, ha scandalizzato anche i più “pragmatici” tra i navigati politici emiliani: “Uno molto composto, educato che ha sempre vissuto a basso livello” ha detto in una intervista di una tv locale l’attuale sindaco di Brescello riferendosi a Nicolino Grande Aracri; (nonostante la condanna in via definitiva di costui in regime di “41bis” per associazione mafiosa)! Una singolare assonanza con alcuni politici del torinese che procurarono voti per le primarie del sindaco di Torino chiedendoli a compaesani che dovevano poi rivelarsi titolari di ‘ndrine e proprio attraverso queste in grado di “contare i voti”…Ma non è l’unica analogia con le cronache recenti dalle Alpi alle Mdonìe passando per Mafiacapitale… Basta ascoltare le telefonate disinvolte e protervie dei professionisti coinvolti, come una consulente finanziaria di Bologna che – pecunia non olet – era in affari con i mafiosi; conversazioni così simili a quelle di tante altre intercettazioni se si eccettua la frase di gergo bolognese “oh ragassuoli, funziona così!” rivolta al padre che fa qualche timida obiezione sui rischi legati agli interlocutori della figlia e alle loro “attività”…
Ed è a Enrico Bini che l’intervistatrice chiede conto anche del tono della commercialista di “entusiastica adesione” agli affari del mafioso che lei rispetta in quanto “rappresentante di 140 imprese”, una garanzia! E del ramificarsi in altre ‘ndrine e associazioni parallele che hanno finito per inquinare l’intero territorio attorno a Reggio Emilia. Bini non si nasconde dietro un dito: i personaggi venuti da altrove sono stati abili a presentarsi con una faccia pulita, ma non avrebbero potuto farlo senza l’accoglienza e l’introduzione nei salotti buoni a cura dei finanzieri, degli imprenditori e dai politici locali. “Ed è questa la cosa che fa stare peggio”. E non è stato il bisogno (quello intervenuto dopo l’inizio della crisi), ma l’avidità, la sete di potere a determinare la saldatura tra mafiosi e collusi. L’intervistatrice prega Bini di raccontare di questi “imprenditori che giravano con la pistola” e chiede conferma del fatto che tutto sia cominciato in contemporanea con l’insediamento dei cantieri dell’alta velocità! “ Con l’alta velocità è diventato tutto più evidente perché prima costoro curavano altri settori, l’edilizia, il commercio, le discoteche. Durante l’alta velocità sono arrivati in massa, hanno portato altri soggetti perché c’era un movimento terra molto importante (solo a Reggio in 3 anni si muovevano più di 150 camion al giorno, quindi si possono immaginare i numeri complessivi tra Bologna e Milano)! Giravano con auto blindate, scorta armata, e tutto attorno mezzi che bruciavano: tutti segnali che avrebbero dovuto essere colti, ma nessuno volle farlo perché interessava l’appalto”. “Lei ha denunciato tutto questo ed è stato isolato?!” “Si, è stato un periodo complicato. Dire nel 2008 che qui c’era la mafia ha fatto male, si sono anche arrabbiati nei miei confronti ed è questo che ha fatto più male, ma con il mio incarico era giusto assumersi la responsabilità fino in fondo. Poi finalmente con l’arrivo della nuova Prefetto che ha avallato le mie accuse se non altro non ero più solo.”
La conduttrice della trasmissione chiede a questo punto alla giornalista del quotidiano locale una opinione sul ruolo dei politici in tutta la vicenda a cominciare dall’allora sindaco reggiano Delrio
“Mah, il sindaco Delrio non è stato toccato dall’inchiesta, è stato sentito come persona informata dei fatti, gli sono state chieste alcune cose riguardo alla sua partecipazione, con altri candidati sindaci, a Cutro alla processione del Santo Crocefisso, durante la campagna elettorale del 2009…E alcune altre cose riguardo a un intervento verso il Prefetto fatto assieme ad altri consiglieri comunali Pd & Pdl circa l’interdittiva antimafia”. La conduttrice chiede se perché c’erano state delle proteste. “Si, gli impresari calabresi lamentavano di essere discriminati dai reggiani” . Poi viene domandato a Bini degli appalti post terremoto: “Si dopo l’alta velocità sono arrivati gli affari del terremoto. Affari per loro, per noi erano una tragedia. Ma li – per fortuna – erano già in campo il Prefetto e le forze dell’ordine che hanno compilato le white list (le liste delle aziende per bene, n.d.r.) e anche le imprese locali colluse che in un primo tempo erano state ammesse sono state successivamente allontanate”.
La pericolosità dell’infiltrazione è soprattutto “certificata” dalla penetrazione nei gangli del potere come si ricava da altre intercettazioni che rivelano come i mafiosi fossero preavvertiti di controlli che potessero far scoprire le irregolarità che quindi venivano fatte sparire tempestivamente: “domani tutti buoni e tutti belli puliti, mi raccomando”.
A Sabrina Pignedoli viene ancora chiesto delle minacce subite personalmente a seguito del suo coscienzioso lavoro: “Si, avevo parlato di una cena tra un politico ed alcune persone in odore di ‘ndrangheta e successivamente erano scattati dei provvedimenti del Prefetto, per cui mi ha telefonato un poliziotto (che in seguito verrò arrestato per associazione mafiosa) che mi disse d non scrivere più di queste persone in quanto suoi cari amici. Non mi sono lasciata intimidire e ho denunciato tutto alla magistratura”…
Dallo studio di Roma si fa rilevare che una recente manifestazione indetta con lo slogan “svegliati Emilia” ha contato una partecipazione sconfortante, circa 150 persone e la Pignedoli commenta che forse i cittadini emiliani non sono ancora del tutto consapevoli della dimensione del fenomeno di contaminazione mafiosa e se ne sentono candidamente indenni…Al contrario, nella riposta di Bini alla successiva domanda su che cosa resta nel tessuto imprenditoriale della regione dopo questa vicenda emerge si, la voglia di ripartire, di fare impresa etica, impresa legale, di coloro che si sono tenuti fuori dal malaffare, ma anche la consapevolezza che la vicenda non è né finita né completamente indagata: “ci possiamo preparare ad avere altre sorprese, perché l’infiltrazione c’è a Reggio Emilia, c’è a Modena (dove ricordiamo il recentissimo e gravissimo caso di CPL Concordia”) ci sono stati arresti solo qualche settimana fa anche a Sassuolo di usurai legati alla mafia. C’è molto da fare, molto da costruire e questa non voglia di vedere la dice lunga su un tessuto infiltrato davvero tanto”. E’ una cosa che colpisce e fa male perché chi come me viene da una storia di partito, dal PCI, vedere che anche l’impresa cooperativa si è fatta contaminare, si è venduta a questi soggetti malavitosi fa male: qui siamo in una piazza dove sono morti degli operai delle Officine Reggiane, c’è stato chi ha dato la vita per la libertà e la democrazia e penso che sia un aspetto particolarmente grave”.
Una conclusione accorata ma amara che parrebbe quasi rimandare (non fosse uscita dopo) alla recentissima intervista a Nino Di Matteo, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, raccolta da Lorenzo Baldo e pubblicata su Micromega dove il magistrato che ha “ereditato” le inchieste (e le minacce) di Falcone e Borsellino sostiene ancora una volta (inascoltato) che “mafia e corruzione rappresentano due facce della stessa medaglia, due aspetti distinti di un unico sistema criminale integrato, in cui la violenza della mafia e i soldi della corruzione si integrano a vicenda per il raggiungimento di scopi criminali”. Ma soprattutto fa una affermazione sconvolgente che l’intervistatore adopera comprensibilmente per titolare il pezzo: ”anche per la magistratura la lotta alla mafia non è più prioritaria”.
Una affermazione che chi come me abita in Valle di Susa a mezza strada tra Torino (dove la Mafia alzò il tiro già oltre trent’anni fa, trucidando l’allora Procuratore capo Bruno Caccia) e Bardonecchia (dove l’infiltrazione conclamata della criminalità organizzata portò – nel lontano 1995 – al primo scioglimento in assoluto di un’amministrazione comunale del norditalia) non è tanto sconvolgente in se, quanto per l’autorevolezza di chi la fa! Anche se fortunatamente proprio nelle ultime righe della conversazione si può cogliere un accenno di fiducia nel futuro e nei giovani:
“Per invertire questa tendenza possiamo sperare soltanto nella capacità dei giovani di informarsi più approfonditamente di quanto è consentito a chi si limita a seguire la stampa e la televisione generalista del nostro Paese. Bisogna indignarsi tenendo gli occhi aperti sulla realtà, senza farsi distrarre da argomenti che vengono propinati (a lungo e in maniera ossessiva) come se fossero le questioni principali del Paese e che invece servono a trascurare altri problemi, come quello della reale incidenza della mafia nell’esercizio del potere ufficiale”.
Ricerche, commento e “ sbobinatura” di Claudio Giorno. Borgone Susa 10 ottobre 2015
*)_ Sabrina Pignedoli: “Operazione Emilia, come una cosca di ‘ndrangheta si è insediata al nord” edizioni Imprimatur
*)_ RESTATE SCOMODI del 09/10/2015 – Seconda parte – Bologna: maxi processo ‘ndrangheta:
Le fotografie – fuori testo – sono state scattate a Brescello l’8 maggio del 2014