
«La NATO manderà navi nel mar Egeo per fermare la tratta di esseri umani», annunciava il New York Times poco meno di un anno fa. Questo titolo è solo uno dei numerosi tentativi di criminalizzare ulteriormente gli “scafisti”. Ma definire la fuga di profughi verso l’Europa come “tratta di persone” non crea altro che confusione e non può certo giustificare l’invio di navi militari nelle acque del Mediterraneo.
Siamo soliti associare la “tratta di esseri umani” all’odissea che vivono quelle donne migranti che vengono costrette alla prostituzione da organizzazioni criminali con il risultato di finire in strada o rinchiuse in squallidi bordelli. Ma come è possibile che dei profughi siriani, che desiderano cosí disperatamente scappare dalla guerra da essere pronti a pagare uno scafista per un posto su un gommone, diventino “vittime della tratta di esseri umani”, da salvare peraltro con navi da guerra? Eppure il Consiglio dell’Unione Europea ha iniziato a usare il termine “vittime di tratta” per designare entrambe le categorie di persone.
Secondo quanto riporta la Bozza delle conclusioni del Consiglio sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina risalente a gennaio 2016, l’Unione Europea sta elaborando una politica che equipara il “trasporto illegale di migranti” (smuggling) con la “tratta di esseri umani” (trafficking). Il Consiglio giustifica questa politica dicendo che «il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sta diventando un crimine sempre più violento, caratterizzato da gravi violenze fisiche e psicologiche e violazione dei diritti umani». Ma si sbaglia.
Il Protocollo delle Nazioni Unite contro il traffico di migranti descrive questa condotta come l’atto di «procurare, al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale, l’ingresso illegale di una persona in uno Stato di cui la persona non è cittadina o residente permanente». Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina consiste, quindi, in un’operazione di trasporto effettuata una tantum che, a differenza della tratta, non prevede lo sfruttamento, la coercizione o la violazione di diritti umani. Il migrante o il rifugiato acconsentono liberamente di “essere trasportati” e pagano per questo. Al contrario, il Protocollo delle Nazioni Unite contro la tratta di persone evidenzia la natura coercitiva di questa condotta: la tratta ha luogo quando «una persona ha autorità su un’altra [senza il suo consenso] a scopo di sfruttamento».
Lo sfruttamento e il consenso sono due fenomeni differenti. Il “trasporto” prevede il consenso, espresso attraverso il pagamento effettuato con il fine di attraversare una frontiera illegalmente. La “tratta” ha a che vedere con lo sfruttamento. Coloro che traggono profitto dalla tratta di persone rimangono con le loro vittime dopo la traversata, gli scafisti invece spariscono più veloce che possono, a volte lasciando morire le loro vittime. Insomma, la tratta e il trasporto illegale sono fondamentalmente differenti. I rifugiati siriani lo sanno meglio di chiunque altro, e questo è il motivo per cui pagano gli scafisti per raggiungere l’Europa.
I profughi e le vittime di tratta sono entrambi vulnerabili, naturalmente. Ed è certamente vero che i profughi che provano a raggiungere le sponde dell’Europa o dell’Australia, così come quelli che provano ad attraversare la frontiera del Texas, possono essere sottoposti a forme di violenza da parte di chi li porta oltre-confine. D’altra parte, la tratta, finalizzata allo sfruttamento, non avviene sempre attraverso le frontiere: al contrario si può produrre all’interno dello stesso Paese, come nel caso di un’adolescente scappata dallo Iowa e ritrovata in un bordello in Newark, o di una donna messicana clandestina forzata a spostarsi da una città all’altra degli Stati Uniti.
Mentre il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è una transazione a corto termine, che si consuma in questione di poche ore, la tratta si caratterizza per essere un fenomeno di lungo periodo. Le reti criminali che favoriscono la tratta di esseri umani vogliono trarre il massimo profitto dal/la migrante vulnerabile, che spesso deve pagare un debito attraverso il suo lavoro. La tratta è dunque uno stato di coercizione prolungata e/o di sfruttamento del lavoro di una persona. La vittima di tratta può essere certamente “trasportata” illegalmente, come nel caso dei rifugiati, ma l’attraversamento della frontiera è solo l’inizio di un lungo incubo per la vittima.
«La lotta contro le reti criminali che favoriscono l’immigrazione clandestina e la tratta di esseri umani continua ad essere una priorità, e l’Unione Europea dà il benvenuto alle prossime operazioni militari nel Mediterraneo (EUNAVFOR SOPHIA)», ha scritto il Consiglio Europeo nella bozza di documento precedentemente citata.
Perché mettere sullo stesso piano il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina – pagare qualcuno per farti attraversare un confine – con situazioni di coercizione prolungata come la tratta di esseri umani? L’accostamento intenzionale dei due concetti è comprensibile, considerando che molte delle persone ufficialmente identificate come vittime della tratta, provenienti da Paesi esterni all’Unione Europea, hanno pagato per essere portati in Europa. Ma il pagamento è solo una piccola parte del fenomeno della tratta. Distinguere il trasporto dalla tratta non è una mera questione accademica. La confusione dei due concetti si ripercuote sul tipo di politiche che elaboriamo. L’UE dice di combattere la tratta perché non riesce a distinguerla dal trasporto illegale di migranti.
Il concetto di “tratta” andrebbe abbandonato?
Come tutte le questioni di politica sociale, il concetto di “tratta” è difficile da definire, difficile da identificare e tende a generare risposte cariche di connotazioni morali. La tratta di esseri umani certamente esiste, come variante coercitiva della migrazione, ma l’inflazione del termine ha portato a un uso superficiale di questa espressione. Soprattutto nei contesti di lingua inglese, il termine (trafficking) sembra poter essere applicato ad ogni sorta di movimento da parte di un migrante senza documenti, verso qualunque luogo e per qualsiasi ragione: dalle prostitute romene nelle strade, ai braccianti messicani in California, fino all’immigrazione di rifugiati siriani disperati in Grecia.
Tra i ricercatori che lavorano sulle migrazioni, specialmente quelli che studiano le migrazioni forzate o economiche, è in corso un dibattito: la domanda che si pongono è se non sia più adeguato abbandonare completamente il termine “tratta”, adesso che il concetto è stato così diluito e allo stesso tempo politicizzato. In un certo senso, l’uso del termine ha danneggiato proprio quelle persone che si proponeva di aiutare, trasformandole in vittime indifese anche quando non lo sono. La “carta della tratta” può essere giocata anche quando altri concetti non sono più così effettivi da attrarre l’attenzione dei media o dei decisori politici. La “tratta di esseri umani” è una bandiera rossa. Dopotutto, quale politico e burocrate europeo vorrebbe che gli venisse attribuita la responsabilità di aver permesso che qualcuno venga reclutato, trasportato e ospitato per essere sfruttato contro la sua volontà? La designazione della “tratta” automaticamente conduce alla ricerca della “vittima”. E la missione europea in difesa dei diritti umani è quella di aiutare le vittime di ogni tipo.
Negli ultimi anni, il richiamo per la lotta contro la tratta di esseri umani (specialmente di donne per l’industria del sesso) può in parte spiegare perché assistiamo ora alla confusione tra “tratta di persone” e “trasporto di migranti”. La tratta evoca immagini potenti di persone in catene, reti criminali brutali e schiavitù sessuale di vittime innocenti. Chi non vorrebbe eliminare quella che a tutti gli effetti sembra una forma moderna di schiavitù? La tratta assume dunque un significato simbolico, che attinge da una riserva di emozioni molto più ampia di quella del concetto di trasporto: il trasporto è illegale (smuggling, in inglese, significa letteralmente contrabbando); la tratta invece nuoce alle persone. Perché combattere qualcosa di illegale quando si può condurre un’autentica missione morale? Basta dire che il trasporto e la tratta sono la stessa cosa.
Ma nella pratica, che cosa ci insegna la confusione tra questi due concetti? L’assistenza offerta alle vittime di tratta dovrebbe essere offerta anche ai rifugiati che hanno pagato degli scafisti? Che differenza comporta questa sovrapposizione per quelle persone che, spontaneamente, nel tentativo di aiutare i rifugiati nel viaggio verso il loro paese di destinazione, possono essere arrestati non solo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ma anche per tratta di esseri umani?
La lotta contro la tratta giustifica l’uso della forza militare?
Nel 2015, l’Unione Europea e le Nazioni Unite hanno discusso circa l’opportunità di usare la forza militare per distruggere le imbarcazioni degli scafisti che trasportano rifugiati dalla Libia (vedi il New York Times e il Washington Post). Molti politici hanno fatto riferimento alla tratta di persone come giustificazione per le loro misure drastiche. Che gli scafisti stessero trasportando profughi verso l’Europa non era una giustificazione sufficiente. L’operazione militare incombente nel Mediterraneo, EUNAVFOR MED, è stata dunque ribattezzata come «sforzo sistematico per individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi usati o sospettati di essere usati dai contrabbandieri o dai trafficanti di esseri umani». Tuttavia, un articolo apparso sulla piattaforma di ricerca OpenDemocracy, intitolato “Beyond trafficking and slavery” argomenta che la confusione tra trasporto e tratta permette ai leaders europei di discutere e legittimare l’uso della forza militare come se si trattasse di un imperativo morale. Il trasporto è un crimine senza vittime, molto piú simile all’acquisto di droga. La tratta, invece, è il male. Quali politici potrebbero dire “no” alla lotta per combattere qualcosa di così malvagio come la tratta di esseri umani?
Matteo Renzi ha contribuito ulteriormente alla confusione e alla giustificazione all’uso della forza militare, dichiarando che «gli scafisti sono i moderni schiavisti». Commenti come questo hanno portato la studiosa inglese di schiavitù Julia O’Connell Davidson a dichiarare che i leaders europei, nella loro lotta contro il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e la cosiddetta tratta di esseri umani, hanno grossolanamente fuorviato il concetto di schiavitù.
I rifugiati siriani non sono né schiavi né niente che possa essere paragonato a una vittima degli scafisti. Gli schiavi erano forzati a salire su una nave e il loro lavoro era sfruttato nelle colonie europee. I profughi di guerra siriani, in cerca di una vita sicura, scelgono di pagare enormi somme per essere portati clandestinamente in Europa. Come sottolinea Davidson, i siriani non possono comprare un biglietto aereo e volare direttamente in Europa per un decimo di quello che chiede uno scafista, e questo non è colpa di nessun “commerciante di schiavi” o “trafficante di esseri umani”. Sono le stesse linee aeree che – su istruzione dei governi europei – richiedono ai siriani di avere un visto valido prima di imbarcare.
Questo dibattito confuso, in cui il trasporto si è trasformato in tratta e la tratta in schiavitù, ci impedisce di vedere le cause reali delle morti dei profughi in mare: la guerra nel proprio Paese e il controllo delle frontiere in Europa.
Traduzione di Cecilia Vergnano. In inglese sul blog dell’autrice www.sineplambech.com. Immagine di copertina “Yuba, rifugiato algerino. Banja Koviljača, Serbia, 2014”, tratta dal progetto fotografico di Alberto Campi e Cristina Del Biaggio Balkan Road.
da Wots alla pagina http://wots.eu/2016/12/07/militarizzare-le-frontiere-per-proteggere-i-migranti/