
di Teresa Messidoro (*).
Lisangà in una lingua congolese significa lavorare insieme come fratelli.
Nel mondo esistono molte culture, nonostante la cultura neo liberista, patriarcale e in fondo razzista, cerchi di schiacciare le altre, considerandole e facendole apparire inferiori. Ma fortunatamente le culture “altre” sopravvivono, si incontrano e si intrecciano, nel continuo movimento di persone e pensieri.
Ecco perché la nostra associazione, nata a Giaveno nel 2005, ha scelto di chiamarsi “Lisangà culture in movimento”. Il luogo di nascita era legato alla presenza in loco di alcuni soci fondatori: ora l’associazione si è espansa, e non solo in Italia.
Infatti, alcune delle persone più coinvolte vivono in Valle di Susa, passando per Torino, Novara, Milano, Trento, Pistoia, giungendo fino a El Salvador, il pulgarcito de America, il paese chiamato “pollicino” perché il più piccolo del continente latinoamericano. Anzi, meglio chiamarlo con il suo nome originale: Abya Ayala.
Lisangà fin dalla sua nascita si è posto come obiettivo principale la scelta di costruire progetti di solidarietà con un piccolo villaggio autogestito della regione di Cabañas, in El Salvador, che si chiama San Francisco Echeverría (SFE).

La scelta nasce dal fatto che alcuni di noi, io in particolare, conoscevamo El Salvador dagli anni della lunga guerra civile che ha insanguinato il paese centroamericano dal 1980 fino al 1992, quando sono stati firmati gli Accordi di Pace tra l’esercito ufficiale e la guerriglia, trasformatasi poi in partito.

In quegli anni l’attività di solidarietà era incentrata sul tema della denuncia delle violazioni dei diritti umani e sul sostegno alle organizzazioni sociali che conducevano una battaglia apparentemente impari contro le dittature che si alternavano in El Salvador.
C’era la guerriglia, i corrispondenti dei nostri partigiani, che combattevano con le armi contro un esercito sostenuto militarmente dalla più grande potenza mondiale, gli Stati Uniti, e c’erano insegnanti, catechisti, sindacalisti, dirigenti contadini o semplicemente donne e uomini che pagavano con il carcere, le torture, la sparizione o l’assassinio, il desiderio di libertà e giustizia sociale.
Terminata la guerra, la nostra solidarietà si è modificata, trasformandosi prima in un sostegno ad esperienze locali di commercio equo e solidale con cooperative artigianali e poi nell’individuazione di una piccola realtà, con poche risorse economiche ma con una struttura comunitaria autogestita interessante.
E così, da allora, attraverso scambi personali che si ripetono praticamente ogni anno, dall’Italia a El Salvador, e ogni due nel senso opposto, attraverso condivisioni, discussioni, amicizie ed affetti, si continua a lavorare per e con il Buen vivir a SFE.
Solo alcuni esempi: nel corso degli anni abbiamo sostenuto gli studi universitari dei primi maestri popolari della comunità, permettendo loro di essere assunti regolarmente dal Ministero dell’istruzione (uno è stato direttore del centro escolar locale fino all’anno scorso ed ora lo è un altro maestro popolare).

Su indicazione dell’allora Giunta Direttiva di SFE (che cambia ogni due anni, eletta democraticamente dall’assemblea degli abitanti di SFE), li abbiamo aiutati economicamente a ristrutturare una casa abbandonata durante la guerra da una ricca famiglia locale per trasformarla in biblioteca.
Da più di quindici anni garantiamo lo stipendio della bibliotecaria e da due anni quello della ragazza che l’affianca, ruolo che ruota ogni anno tra i giovani della comunità. La biblioteca è un luogo di cultura importante, perché la maggior parte delle famiglie del villaggio difficilmente ha i soldi per comprare i libri ai propri figli; inoltre, in biblioteca, funziona un centro internet.

Abbiamo cercato di sostenere giovani e donne, appoggiando studi universitari, cooperative di falegnami e apicoltori, creando spazi di occupazione nel campo della medicina naturale e della sanità.
Da alcuni anni funziona una Casa de Salud, grazie anche al nostro appoggio e a quello dell’Otto per Mille della Tavola Valdese. Vorremmo anche far sì che non si perda la memoria storia di SFE, dove nell’84 un massacro perpetrato da battaglioni speciali costrinse la maggior parte delle famiglie a fuggire; ritorneranno soltanto in pochi, una ventina di persone, agli inizi degli anni 90, a guerra quasi finita, per ripopolare la propria terra e ricostruire un’identità collettiva comunitaria che esiste ancor oggi.

Con questo spirito, con fatica a volte, con difficoltà in altri momenti, ma sempre con allegria, contentezza e consapevolezza di dare un nostro piccolo apporto alla costruzione di mondi “altri”, proseguiamo sulla strada di solidarietà e condivisione di percorsi di crescita individuale e collettiva.
L’iniziativa del 12 ottobre ad Avigliana ne è un esempio.
(*) Maria Teresa Messidoro, vicepresidente di Lisangà, innamorata di El Salvador da quarant’anni, autrice di libri, articoli sul tema.
www.lisanga.org
terri.messi@tiscali.it