
di Davide Amerio.
Del Jobs Act si è parlato e si continuerà a parlare molto. Sulla sua efficacia siamo in molti a nutrire dei dubbi e il tempo darà la misura della reale utilità di questo strumento fortemente voluto dal governo con l’appoggio della Confindustria. In questi ultimi giorni l’attenzione si concentra sulle potenzialità violazioni della privacy dei dipendenti/lavoratori utilizzando i nuovi strumenti tecnologici a disposizione delle aziende. In genere si ribatte che il controllo verte proprio sull’utilizzo di questi strumenti da parte del dipendente. Un bel po’ di perplessità rimangono; nell’ambito “informatico” la scarsa competenza dimostrata negli ultimi 30 anni dai governi e dai ministeri non premette nulla di buono.
Ciò che mi pare più incredibile nel dibattito in corso è il grande assente: il lavoro. Intendo che nel parlare di controlli, verifiche, privacy, etc etc, sembra che nessuno sia più in grado di valutare il lavoro svolto da qualcuno se non gli ha appiccicato una telecamera o un timer sotto la sedia.
Un presupposto delle aziende sane, quelle nate dalla volontà e tenacia di “veri” imprenditori è la consapevolezza di come un lavoro debba essere fatto e quanto tempo ci vuole per realizzarlo. Questo accade quando il “padrone” proviene dal “basso” e conosce il mestiere.
Parecchi anni or sono si iniziò a parlare di Project Management, ovvero di quella disciplina dotata di principi e strumenti per stabilire i passaggi necessari alla realizzazione efficace di un progetto, dalla fase di analisi a quella di consegna dell’opera finita. Tra i vari testi che ho letto mi è rimasto impresso quello scritto da due ingegneri (impiegati nella realizzazione delle piattaforme petrolifere) i quali, oltre a definire gli strumenti operativi del P.M. (analisi dei costi, degli step, dei rischi, etc etc), introdussero il loro lavoro scrivendo che il P.M. è una bella cosa, e anche utile, ma che non bisogna dimenticare come i Romani e gli Egizi hanno costruito grandi opere (queste si!) senza definire alcun formalismo di P.M.
Ma non solo. Un quarto del libro, la parte finale, riportava semplicemente aforismi. Fatto insolito giustificato dalla necessità di riflettere prima di agire e di non perdere mai la bussola della logicità in qualsiasi progetto. Presupposto necessario nella pianificazione: nel momento in cui si distribuiscono i carichi di lavoro e si definiscono i tempi di realizzazione degli stessi è necessaria la conoscenza del lavoro stesso per poter fare opportune valutazioni.
Negli anni ’80 (e anche successivamente) ci giungevano notizie, trattate dai nostri quotidiani come eccentricità dall’estero, di aziende importanti e di alto profilo tecnologico nelle quali il controllo sul lavoratore non esisteva, bensì era fatto sul lavoro svolto. A un impiegato veniva assegnato un compito e una data di consegna. Se alla data stabilita il lavoro non veniva consegnato erano guai seri per il dipendente. Ma nessuno si poneva il problema di come, quando, in che modo, questo venisse svolto dal lavoratore.
Ora tutto questo parlare di controlli ammantati dalla storiella della meritocrazia (buona per tutte le stagioni politiche) ha molto il sapore dell’ipocrisia e della totale incapacità aziendale di saper valutare i tempi necessari per realizzare un compito assegnato. Se conosco il lavoro di cui parlo e sono un manager, degno di questo nome, saprò assegnare gli incarichi e le date di consegna.
Se gli amministratori delegati e il management delle nostre aziende (oltre a intascare lauti compensi) avessero maggiore e reale conoscenza del “lavoro” che deve essere svolto non avrebbero bisogno di controllare quanti respiri ha fatto o quante volte un dipendente è andato in bagno!
Che il lavoro debba essere controllato e valutato è fuori di dubbio; ma lo strumento “meritocratico” deve basarsi su criteri che valutino la capacità di svolgere un’attività nei tempi ragionevolmente assegnati. Se occorre infrangere il tabù sindacale per il quale ogni lavoratore è intoccabile anche quando è uno sfaticato, questa agitazione sui controlli sembra più preoccupazione per creare un sistema di pressione nei confronti di chi lavora con minaccia di facile licenziamento come previsto dalle nuove leggi. La meritocrazia è tale quando a ciascuno viene data la possibilità di contribuire secondo le proprie capacità.
Per questo la strada intrapresa dal Jobs Act è perdente in partenza.
(D.A. 24.06.15)