
di Davide Amerio.
Negare che in Italia esistano forme di razzismo significa nascondere la testa dentro la sabbia. La sensazione dell’aggravarsi del fenomeno, e delle sue manifestazioni – spesso spudorate,- non può che allarmare.
Vieppiù se queste sono rivolte verso i soggetti più deboli, o i disperati di turno. Le discriminazioni sono sempre presenti nei gruppi sociali, di qualunque tipo. C’è sempre una linea di demarcazione che definisce il perimetro del “noi” verso “gli altri”, che stanno fuori.
Noi e Loro.
Il confine tra il “noi” e “loro” contribuisce alla definizione di una identità, di una appartenenza sociale, di una comunità. Niente di male, in fondo; ciascuno di noi partecipa a più gruppi sociali che si intersecano nella realtà, quindi i confini diventano più sfumati.
Possiamo avere antipatia per il nostro vicino di casa, perché vive in modo diverso da noi, e possiede un’altra cultura, o una visione del mondo differente. Poi un bel giorno scopriamo che è tifoso della nostra stessa squadra di calcio, e allora la linea di demarcazione diventa più sfumata. Se poi scopriamo qualche altro interesse comune, rischiamo di non ricordarci più perché ci stava così antipatico.
Diversa è la questione quando il presupposto del confine non è più definito da un’appartenza motivata da interessi specifici, oppure usi o costumi, bensì dal disprezzo verso l’altro. Non esiste un volto che esprima “odio”, spiegava Paul Ekman, lo studioso che ha trascorso anni a studiare le micro espressioni facciali degli esseri umani, bensì esiste quella che esprime “disprezzo”.
L’odio che genera violenza, verbale e/o fisica è un sentimento che esiste in virtù del disprezzo verso qualcuno, al quale non viene riconosciuta la stessa legittimità di esistenza, che invece “noi” pensiamo di meritare.
Ugualmente per i diritti di qualunque tipo (si pensi alle questioni poste dal mondo LGBT). Non può esserci una “Legge” che ferma l’odio, semmai posso esserci Leggi che agiscono sulle conseguenze, e sulle responsabilità individuali, nel commettere azioni, o nell’esprimere parole, non accettabili per il vivere civile.
Il disprezzo nella storia.
La storia del Colonialismo è farcita di questo disprezzo. La considerazione dell’altro come non-persona, come selvaggio, come essere primitivo: individui allo stato brado, da “salvare” e convertire alla “civiltà” occidentale.
In nome di questa “necessaria” conversione, sono stati commessi crimini orrendi, stragi, soprusi, schiavitù. La storiografia più recente ipotizza che il Colonialismo abbia portato allo sterminio (anche per malattie importate dagli occidentali verso i nativi locali) di circa 60 milioni di individui nel mondo.
Una strage che non è certo finita con le guerre per procura contemporanee.
Le peggiori violenze sono sempre state consumate su chi non si ritiene simile a “noi”; sul “diverso”, perché ad esso non si riconosce l’attributo fondamentale: l’essere umano come noi.
All’origine di questa violenza, e quindi del “disprezzo”, ci sono i pre-giudizi. Quelle idee, non innate, ma formate attraverso la cultura e l’informazione (o la disinformazione).
Sono questi pensieri acquisiti, queste credenze, queste visioni forzate, magari indotte per scopi politici, o religiosi (sempre in ottica di “dominio” politico”) che creano e alimentano il disprezzo verso l’altro, che elevano i muri tra “noi” e “loro”.
Così nella storia i maggiori crimini si sono consumati verso “gli altri”, sulla base di discriminazioni di razza, di cultura, di lingua. Nessuno è mai riuscito a dimostrare, scientificamente, la presunta “superiorità” biologica di qualcuno. Questa è solo un’idea, formata nella mente, non una realtà scientifica.
Tutti abbiamo gli stessi organi, lo stessa composizione del cervello, la stessa struttura scheletrica, gli stessi fluidi corporei. Il sistema biologico che concede la vita, è sempre uguale, per tutti. Se guardassimo a questo sistema con rispetto e “maraviglia”, non avremmo bisogno di religioni che ci dicono cosa fare o pensare.
Sono le idee, che sono costruzioni mentali, a dover essere modificate. Ciò può avvenire solamente attraverso processi culturali, di conoscenza, e di dialogo. Bisogna capire le ragioni delle differenze, e comunque averne rispetto, perché per ciascuno quelle “differenze” costituiscono una identità, e modificarle non è semplice.
Educare all’empatia.
Odiare non è “naturale”; studiare i bambini piccoli, liberi ancora da condizionamenti sociali, aiuta a comprendere i processi di empatia, tipici dell’essere umano. Non ha importanza il linguaggio (che è ancora semplice), non hanno importanza il colore della pelle, il sesso, le abitudini, il credo religioso, e tutte quelle cose su cui si formano normalmente i pre-giudizi, semplicemente perché questi non esistono ancora.
Sono le parti più intime, “antiche” del cervello, quelle più interne, che rispondono a stimoli semplici, e sono preposte a riconoscere l’umanità nell’altro, ad agire in modo “empatico”.
Non sarà un caso che il Cristo, cui tanti Cristiani fanno riferimento per sentirsi migliori degli altri, indicasse proprio nei bambini l’esempio migliore da seguire.
Oggi gli scienziati che ogni anno si incontrano con il Dalai Lama, scrivono pagine di scienza, e di morale, di particolare intensità e ricchezza. Dovrebbero essere lette nelle scuole dell’obbligo.
Baciare meno santini, rosari, crocefissi, e ampolle, dedicando del tempo a letture sane, alle riflessioni, alla ricerca del senso dell’umanità, alla scienza, alla cultura, sarebbe esercizio molto più utile, per rendere il mondo meno ingiusto, e più umano.
(D.A. 06.11.19)