
di Massimo Bonato
Contro il fracking le proteste non accennano a diminuire. Né negli Stati Uniti, come in Texas o in Ohio, dove più attivi sono i pozzi o in Oklahoma dove hannno fatto aumentare gli eventi sismici da uno a 44 l’anno nel torno di un lustro. Non si fermano in Inghilterra e in Irlanda, dove Cameron ha convinto il Parlamento di recente a imprimere quella che dovrebbe essere la svolta epocale inglese, la risposta alla crisi energetica dell’isola in vista di una sempre minor produzione dei suoi giacimenti petroliferi nel Mare del Nord. Non cessano in Centro e Sud America, dove le popolazioni lottano per la difesa della propria terra. Come avviene in queste ore in Messico, nello stato di Coahuila, al nord del Paese proprio al confine con il Texas, dove la popolazione si è mobilitata contro la riforma energetica, ma più direttamente contro l’esproprio delle terre necessarie ad accogliere oltre diecimila pozzi di società nordamericane che usano il fracking come tecnica estrattiva.
Ma il fracking non si sta dimostrando pericoloso soltanto per l’ambiente e per l’uomo, per la facilità con cui le falde acquifere, anche a distanza, possono essere contaminate dagli acidi e dalle sostanze nocive per fratturare il sottosuolo; per i fenomeni sismici che moltiplica anche là dove si sono sempre presentati sporadicamente.
Non si sta dimostrando pericoloso per l’inquinamento prodotto dalla veloce dismissione degli impianti che restano in loco, perché troppo costosi da smontare e riutilizzare o smaltire, vista la scarsa o poca quantità di gas o petrolio ottenibile dalla tecnica stessa utilizzata.
Pare ora diventare pericoloso per la stessa economia. Rivela il «Sole 24 Ore» infatti, come si comincia a paventare nelle banche statunitensi una bolla dello shale gas. Ovvero la bolla prodotta dagli alti prestiti richiesti dalle società per installare velocemte pozzi su pozzi. Tutte società peraltro medie o medio-piccole nate dal nulla, che nel nulla rischiano di naufragare, perché appunto, con il crollo del prezzo del petrolio da un lato, e con il basso rendimento dei pozzi prodotti attraverso il fracking dall’altro, rischiano ora di affondare nei debiti contratti per ridurre interi territori a una groviera. Il «Sole 24 Ore» del 12 novembre richiama l’analisi di Bloomberg secondo la quale, su un campione di 60 società quotate negli Stati Uniti, l’ammontare dei debiti ammontava a giugno di quest’anno a 190,2 miliardi di dollari, 50 miliardi in più dalla fine del 2011, a fronte di una crescita del fatturato di appena il 5,6%.
Il problema delle trivellazioni allora si traduce in qualcosa di molto diverso dalla ricerca di sorgenti alternative di gas o di petrolio, perché ancor prima di giocarsi sulle quantità di barili da immettere sul mercato, traducendoli in economia dei Paesi acquirenti, si presenta ora come incessante necessità di realizzare sempre nuove perforazioni nella speranza di ripagare debiti sempre più ingenti. Senza contare che la partita si sposta dal pozzo allo sportello bancario, considerando che i prestiti a cui le società ricorrono sempre più spesso, non coprono le perforazioni di per sé, ma vengono richiesti per coprire a loro volta debiti contratti in precedenza. Un sistema che rischia di implodere da un momento all’altro.
M.B.14.11.14