
di Valsusa Report.
La definizione del Testimone di giustizia si differenzia dal Collaboratore di giustizia per un fatto essenziale: il primo è un cittadino incensurato e onesto, il secondo non era onesto e con la collaborazione accede a degli sconti di pena; tutti e due vengono inseriti nel “programma di protezione”, lo stesso da ormai 26 anni. Recentemente in televisione l’inchiesta di Riccardo Iacona ha fatto conoscere i tanti Testimoni di giustizia che con le loro denunce hanno contribuito a fare arrestare centinaia e centinaia di mafiosi. Vogliamo raccontervene alcune per dare la dimensione di queste incredibili storie, nelle quali lo Stato ha perso letteralmente la faccia.
Chi è testimone di giustizia deve abbandonare la sua terra e la sua vita, distruggere tutto in nome della legalità. Quella legalità dello Stato che infine lo abbandona come una spesa da tagliare. Una vera e propria sconfitta per l’Antimafia, una vittoria per la Mafia. Tutto il contrario di quanto diceva a Michele Santoro, l’allora Giudice Giovanni Falcone, intervista del 3 maggio 1990 a samarcanda “il teste non può essere spremuto utilizzato e buttato via, son problemi di credibilità dello stato”.
Tecnicamente la legge che istituisce lo stato di Testimone di giustizia, disciplina e lo distingue da quello già esistente del collaboratore o, spesso detto, “pentito”. Nasce il 13 febbraio 2001 ed è stata battezzata con un numero, la numero 45, prima di tale intervento non vi era alcuna differenza, sia sul piano terminologico che su quello della tutela, tra il passivo spettatore di un crimine e chi invece vi aveva partecipato. In buona sostanza, la legge accomunava in un’unica categoria i cittadini modello ai delinquenti. E per entrambi disponeva lo stesso trattamento, i problemi nascono proprio qui, il diritto è un mondo virtuale, che difficilmente cambia la realtà senza l’ausilio e la ragionevolezza dei suoi interpreti. Cosicché, pur modificata la disciplina, i problemi sono rimasti gli stessi .
Piera Aiello, Testimone di giustizia. Dal lontano 30 luglio 1991, sono diventata testimone di giustizia in seguito all’omicidio di mio marito Nicolò Atria avvenuto il 24 giugno 1991, ucciso davanti ai miei occhi. Occhi che hanno visto. Occhi che hanno voluto vedere e non chiudersi nella rassegnazione, nella paura, nella cultura di morte alla quale mi volevano relegare. Quando ho deciso di testimoniare non sapevo neanche il significato di “Testimone di Giustizia”, non sapevo addirittura il significato di Procuratore della Repubblica tanto che quando incontrai per la prima volta Paolo Borsellino lo chiamai Onorevole. Ricordo che Paolo Borsellino sorrise sotto i baffetti e mi disse: “Signora, con tutto il rispetto per la categoria me ne guarderei bene da essere un onorevole, io sono un semplice Procuratore della Repubblica al servizio dello Stato”. Non ci sono i riflettori quando un testimone viene esiliato in quella che viene comunemente detta “località segreta”, già allora lo Stato mi tradiva quello Stato in cui nessun cittadino onesto può sentirsi protetto. Nonostante tutto io credo nella Giustizia, credo che si possa ricominciare una nuova vita.
Giuseppe Todaro ha avuto la forza di ribellarsi alla mafia, imprenditore palermitano, dopo dieci lunghi anni di soprusi subiti, si è ribellato ai propri estortori denunciandoli “Tutto comincia nel ’95 con l’avvio di un’azienda nella zona industriale di Cinisi: l’attività parte regolarmente ma dopo un paio d’anni mi chiede un incontro Gaspare Di Maggio. Il nome diceva tutto, un pedegree di primo livello. Che fosse pericoloso me n’ero accorto da solo. Di Maggio mi dice di mettermi apposto immediatamente perché l’azienda era ormai avviata e c’era da pagare Quindi il pizzo era diventato una sorta di controllo indiretto sull’azienda? “Il nodo è proprio questo: il pizzo è un biglietto da visita. La mafia aggancia così l’azienda, vi entra dentro e la utilizza a 360 gradi. E’ vero che l’azienda è tua ma non puoi avere l’elettricista che vuoi, le opere edili che vuoi, alla fine ne perdi il completo controllo. Loro ti impongono addirittura il personale, anche se nel mio caso sono sempre riuscito a evitarlo per via della manodopera specializzata di cui avevo bisogno”.
Lea Garofalo (Petilia Policastro, 1974 – Milano, 24 novembre 2009) è stata una Testimone di giustizia, vittima della ‘ndrangheta. Lea Garofalo era una testimone di giustizia sottoposta a protezione dal 2002, ammessa nel programma di protezione insieme alla figlia Denise e trasferita a Campobasso, si vede estromessa dal programma nel 2006 perché l’apporto dato non era stato significativo. La donna si rivolge allora prima al TAR, che le dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che le dà ragione. Nel dicembre del 2007 viene riammessa al programma, ma nell’aprile del 2009 – pochi mesi prima della sua scomparsa – decide all’improvviso di rinunciare volontariamente a ogni tutela e di tornare a Petilia Policastro, per poi trasferirsi di nuovo a Campobasso in una casa che le trova proprio l’ex compagno Carlo Cosco. Lea Garofalo conosceva, infatti, molti segreti della faida fra le famiglie Garofalo e Mirabelli di Petilia Policastro e si sarebbe dovuta recare, nel mese di novembre del 2009, a Firenze per depositare la sua testimonianza in un processo. In quella occasione avrebbe potuto svelare situazioni nelle quali il suo ex compagno era direttamente coinvolto. Nel novembre del 2009 Cosco attirò l’ex compagna in via Montello 6 con l’intento di parlare del futuro della loro figlia Denise. Alcune telecamere inquadrarono madre e figlia nelle ore del pomeriggio lungo i viali che costeggiano il cimitero Monumentale: sono gli ultimi fotogrammi prima della scomparsa definitiva di Lea Garofalo. Fu rapita in strada la torturarono per ore per farla parlare e poi la uccisero mediante strangolamento. Il corpo venne portato in un terreno nella frazione di San Fruttuoso (Monza) ed in quel luogo venne bruciato all’interno di un bidone metallico e poi sepolto.
Il grosso elenco riporta di Testimoni di giustizia che da liberi cittadini lavoravano come imprenditori e scelsero anche loro di stare dalla parte della legalità. Ditte rovinate dallo Stato.
Giuseppe (Pino) Masciari, imprenditore edile calabrese, è stato sottoposto dal 18 ottobre 1997, assieme alla moglie e ai due figli, a un programma speciale di protezione per aver denunciato la ’ndrangheta e le sue collusioni politiche. Una delle due imprese in suo possesso, la “MasciariCostruzioni”, operava nel campo degli appalti pubblici, case popolari, impianti sportivi, scuole, strade, restauri di centri storici, ecc. L’altra impresa, ereditata da suo padre, in cui Masciari svolgeva il ruolo di amministratore, si occupava del settore privato, quindi costruzione di abitazioni civile destinate alla vendita. Nel 1988, alla morte del padre, Pino Masciari si trovò da solo con nove fratelli e per proseguire i suoi lavori egli dovette cedere alle estorsioni, ossia il 3% ai mafiosi e il 6% alla parte collusa con la politica, nonché a numerose imposizioni delle cosche fra cui le assunzioni pilotate, le forniture di materiali e di manodopera, regali di appartamenti ecc. e nell’elargizione di denaro e di lavori pubblici pretese dai politici. I suoi problemi iniziarono il giorno in cui decise di non sottostare ulteriormente alle pressioni mafiose dei politici e al racket della ‘ndrangheta. La criminalità organizzata, insieme a personaggi di spicco del mondo politico ed istituzionale, cominciò a intralciare le sue imprese di costruzioni edili bloccandone le attività, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove era infiltrata e intralciando i rapporti con le banche con cui egli operava. Due anni dopo, nel 1990, Masciari si ribellò alle pretese dei politici vedendo così le prime ripercussioni sulle sue aziende e ostruzionismi di varia natura. Nel 1992 Pino Masciari si ribella anche alla ‘ndrangheta, subendo gravi ripercussioni in ambito lavorativo e familiare, cominciando ad essere oggetto di furti, incendi, danneggiamenti e minacce. Alcuni malavitosi avvicinarono uno dei suoi fratelli e gli spararono alle gambe. Pino, che nel frattempo aveva subito numerose perdite economiche, fu costretto da malavitosi a non costituirsi parte civile. Contemporaneamente le banche gli consigliavano di rivolgersi agli usurai per ottenere quella liquidità che gli veniva meno dai mancati pagamenti dei lavori, già realizzati, per i quali egli investiva le proprie risorse.
Nell’ottobre dell’anno 1996 il Giudice Patrizia Pasquin dichiara la ditta “Masciari Costruzioni” fallita. A novembre 2006 lo stesso giudice finisce agli arresti domiciliari, a seguito dell’operazione “Dinasty2 – do ut des”, con accuse quali corruzione in atti giudiziari, falso e truffa allo stato: vicenda che getta ombre sull’effettivo fallimento dell’impresa “Masciari Costruzioni”. Il 18 ottobre 1997 Masciari viene sottoposto al programma di protezione previsto per i testimoni, poiché esposto a rischio concreto a seguito della decisione di rendere testimonianza all’Autorità giudiziaria in ordine alle richieste estorsive di cui era fatto bersaglio. Oggi vive senza possibilità di un lavoro regolare e men che meno da imprenditore quale è la sua vocazione.
Tiberio Bentivoglio per non pagare il pizzo ha tenuto testa alla ‘ndrangheta reggina per vent’anni sfidando scogli e ciclopi e traditori, navigando su una zattera tutta sua tra pavidità di funzionari pubblici o di preti in odore di antimafia. Negli anni Settanta, apre un negozio di articoli sanitari, piccola impresa da seguire con la moglie Vincenza e pochi collaboratori. Il 25 aprile del 1992 aprì un vero emporio sanitario, 450 metri quadri con un grappolo di dipendenti. Fu allora che i malavitosi arrivano su di lui e sul suo lavoro. Il primo grande furto lo subisce già in luglio. Subisce intimidazioni e attentati anche incendiari, ma nessuno indaga, nessuno lo interroga. In compenso si fanno vive la banche. Deve rientrare dalla scopertura, chiudere i debiti contratti per rimediare ai furti e all’incendio. I fornitori gli vendono le merci senza più pagamenti agevolati, la scelta di pagare gli stipendi vedrà la moglie denunciata dalla Procura della Repubblica ed equitalia arrivare a chiedere la riscossione.
Poi arriviamo ai giorni nostri e leggiamo sui giornali che lo stato proprio quello stato che ha problemi di liquidità per il programma dei Testimoni, lancia un emendamento della maggioranza al Dlgs sul femminicidio che prevede la tutela delle imprese che lavorano nel cantiere Tav di Chiomonte. Il fondo risarcimenti per le imprese colpite dalla criminalità organizzata verrà esteso anche alle aziende che operano nella realizzazione del Tav Torino-Lione, vittime di danneggiamenti. Lo ha annunciato il ministro dei Trasporti e Infrastrutture, Maurizio Lupi, in un’intervista al Tg2, definendo ”delinquenti che compiono azioni terroristiche” gli autori degli attentati alle aziende occupate nella realizzazione dell’opera. Riguardo poi alle imprese che subiscono danneggiamenti a causa di attentanti, il ministro ha aggiunto di aver ”incontrato questi imprenditori domenica scorsa a Torino e la cosa più grave che ho ascoltato è che per fare un lavoro che è loro chiesto dallo Stato queste persone mettono a rischio la famiglia, gli operai e i beni delle loro aziende. Lo Stato non può stare fermo. D’intesa con il ministro dell’Interno Angelino Alfano abbiamo proposto di allargare alle imprese che lavorano per opere di interesse nazionale e subiscono danni il fondo risarcimenti già previsto per le ditte vittime di attentati della criminalità organizzata”. Mette a disposizione fino a cinque milioni per risarcire chi ha subito danneggiamenti.
Ma non basta la previsione degli indennizzi, che era stata introdotta in fase di conversione del Dlgs sul femminicidio, è stata successivamente stralciata dalla V Commissione bilancio della Camera. E allora la Regione Piemonte è pronta a “sostituirsi” allo Stato e lanciare un proprio fondo di 1,8 milioni coperto con le risorse recuperate dalla procura di Torino per centinaia di truffe subite dalla finanziaria regionale Finpiemonte, tra il 2003 e 2011, sui contributi a fondo perduto erogati per siti web e voucher fiere.
Qui interviene anche il senatore piemontese Pd Stefano Esposito, vicepresidente della VIII Commissione parlamentare (Lavori pubblici e comunicazioni) e membro della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere. Uno che ne sa. “Nonostante le numerose visite delle istituzioni al cantiere della Tav – sottolinea il senatore, facendo eco alla paura dell’allora giudice Giovanni Falcone – oggi gli imprenditori valsusini sono stati lasciati soli dallo Stato”. Un po’ la stessa cosa che succede a un Testimone di giustizia.
Volevamo chiudere con un calcolo schietto, con 5 milioni di euro per le tre ditte valsusine si potevano pagare stipendi da 1200 euro agli 88 Testimoni di giustizia, a oggi ancora vivi, per la durata di 4 anni circa, tredicesime comprese, o se vogliamo dirlo alla maniera No Tav, con i soldi inutili del nuovo autoporto e la guida sicura.
VR (23/01/14)