
Contributo di Antonio Alei.
L’economia di un paese si basa sulla possibilità di produrre un reddito o ricchezza o “valore aggiunto”. Come si produce nuova ricchezza? Con le idee geniali e la loro applicazione, il lavoro produttivo appunto (ovviamente sono lavoro anche le idee creative).
Faccio un esempio banale: l’importazione in Italia intorno all’anno mille (regno di Ruggero II di Sicilia) del baco da seta ha dato luogo a tutta una nuova filiera economica a partire dalla messa a dimora degli alberi di gelso per finire con la produzione di macchinari specializzati per la lavorazione della seta e la rete di industrie e commerci che questa “banale” e intelligente importazione ha prodotto. Si è creata ricchezza quasi dal nulla, ma è stato necessario impiegare molto lavoro e intelligenza per raggiungere l’obiettivo.
Quando “trasformo” con una semplice delibera un terreno agricolo di scarso valore in area fabbricabile che vale un istante dopo da dieci a cento volte il suo reale prezzo di mercato non ho prodotto ricchezza, ma un arricchimento artificiale del proprietario dell’immobile (rendita parassitaria). In seguito, ma solo in seguito, verranno realizzate strade e servizi su quell’area edificabile, gli unici interventi che ne giustificherebbero un aumento (contenuto e non smodato) di effettivo valore aggiunto.
Allo stesso modo, quando lo Stato impone balzelli e tasse aggiuntive (vedi IMU sui terreni agricoli) all’Irpef e all’IVA sulle attività produttive o marche da bollo su atti pubblici, sta creando a suo esclusivo beneficio ricchezza artificiale o un “illecito arricchimento” sulla pelle dei propri cittadini. Analogamente accade quando si “auto-assegnano” prebende, stipendi, liquidazioni e pensioni da favola a funzionari o amministratori pubblici che sovente, anziché produrre “valore aggiunto” e corretta amministrazione, lasciano gestioni in larga perdita o addirittura sull’orlo del fallimento.
Ovviamente il debito pubblico si “impenna” su queste perdite (le ricchezze”passive” create per decreto e non per lavoro produttivo).
E la Mafia cosa fa? Esattamente le stesse cose, impone pizzi e balzelli su attività altrui che finiscono col deperire e morire insieme ai loro addetti o proprietari.
Queste parole non sono mie:
«Ma la mafia era, ed è, un’altra cosa: un “sistema” che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel “vuoto” dello Stato ( cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma “dentro” lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltantosfrutta.»
ma di Leonardo Sciascia, tratte dall’Appendice al suo libro “Il giorno della civetta” scritto nel lontano 1960.
Anche quanto segue non è frutto della mia “fervida immaginazione”:
«Ma resta soprattutto da vedere, in un paese come l’Italia dove le posizioni di rendita hanno accompagnato per tanti versi l’evoluzione del capitalismo industriale e sono stati fattori di stabilità politica e sociale (attraverso l’aggregazione di ampi strati di borghesia meno dinamica o “parassitaria” e di minuto sottoproletariato), quali forze economiche private avrebbero interesse reale a portare avanti un disegno inteso a “cambiare cavallo” e a scindere sul serio rendita e profitto, che turberebbe alcuni equilibri più riposti del sistema.
(omissis)
D’altra parte, l’allargamento di una fascia di borghesia politico-burocratica variamente protetta, di una nuova “classe agiata” che consuma ricchezze senza produrne, e l’accentramento sotto il controllo del partito di maggioranza relativa (in cui le tendenze autoconservative della gestione del potere si sommano alle basi piccolo-borghesi del suo elettorato) di parte cospicua delle leve dei processi di accumulazione, sembrano dar ragione ad una prospettiva di ricomposizione del quadro politico-sociale nell’ambito di una sorta di capitalismo burocratico-amministrativo.
(omissis)
Non meno indicativi di una tendenza in atto verso l’impaludamento dei rapporti sociali in un sistema di gruppi d’interesse e di pressione [N.d.R. -leggi potentati economico-finanziari, lobby, mafie], e verso l’accentuarsi delle distorsioni nella distribuzione delle risorse, sono altre manifestazioni diclientelismo politico-economico: dalla latitanza dei sistemi ministeriali di controllo sui prezzi per larghe fasce di attività di rendita o di manipolazione finanziaria, ai progetti di estensione ai piccoli proprietari terrieri e ad alcuni strati di commercianti di quelle stesse funzioni di salvataggio e di “riciclaggio” già svolte da società finanziarie pubbliche in altri settori, dall’atteggiamento delle aziende di parte statale più interessate ad alimentare i propri investimenti che allo sviluppo dell’occupazione, alparassitismo sovvenzionato dallo Stato attraverso il trasferimento di fondi ad enti dichiaratamente inutili o incapaci di scelte economiche produttive.
(omissis)
A maggior ragione appare più difficile oggi, senza un mutamento del quadro politico e un nuovo modo di governare [una sorta di New Deal italiano], il passaggio a un’opera efficace di programmazione e di riforme (in grado di realizzare una diversa alternativa nella priorità degli investimenti e dei consumi e nella distribuzione e negli impieghi del reddito) fondata sulla partecipazione dei sindacati [sic!], degli enti locali e di altre forze sociali, e sostenuta da un autentico consenso popolare.»
Quanto sopra è tratto da: Storia d’Italia vol. 4 – “La storia economica” a cura di Valerio Castronovo, pagg. 502÷506 – Edizioni Einaudi, 1975.
Un paese in cui si premiano gli opportunisti e si umiliano i veri lavoratori (operai, contadini, artigiani, piccoli e medi imprenditori, ecc.) l’ho definito già da tempo che “all’incontrario va” (ossia dove tutti i valori sono rovesciati).
E’ cambiato qualcosa da allora ad oggi? Quanti in Italia sono disposti a rischiare sulla propria pelle una vera attività imprenditoriale? Mancano sia l’humus (vedi oppressione di Stato, Chiesa, lobby e mafie) che la forma mentis o mentalità culturale per praticarla su larga scala e per cambiare il Paese da protagonista “passivo” ad “attivo” ed artefice dei propri destini.