
d Davide Amerio.
Economia globalizzata e coronavirus: ora si teme il peggio. Dopo decenni a raccontarci che vivevamo nel migliore dei mondi possibili, torna la tempesta: uno tzunami che, come nel 2007, rischia di travolgere tutto.
Ma, come sul dirsi, al peggio non c’è mai limite, sopratutto quando i sistemi politici, economici, finanziari, sono sordi ai richiami e agli avvisi sui rischi endemici.
Basti pensare che nel 2007, se non ricordo male, l’insieme dei titoli mobiliari a livello mondiale, rappresentava un valore di circa 12 volte quello del PIL (mondiale). Se, nei tempi “normali”, gli economisti valutavano questo rapporto nei termini di 6, oggi (anche qui vado a memoria) la stima è di circa 54 volte.
Praticamente, anche se nessuno lo dice, le montagne di titoli, fondi, prodotti finanziari in genere, non sono agganciati all’economia reale, bensì a quella che viaggia tra le scommesse bancarie via internet. Tutto sta in piedi perché tutti credono che il sistema si regge da solo, e la fiducia non è più un atto liberamente esercitato, ma una imprescindibile necessità per non far crollare il sistema stesso.
I “mercati” non hanno recepito il messaggio. Dopo la crisi mondiale, i cui strascichi sono ancora tra noi, tutto è tornato come prima. La finanza globale continua a giocare sulle nostre teste. I divari tra “ricchi” e “poveri” aumentano; le classi medie scivolano verso il basso; l’ascensore sociale è pressoché fermo (sopratutto in Italia).
D’altro canto è facile non imparare nulla quando, alla fine, c’è lo Stato, il grande Leviatano, tanto disprezzato dai Liberisti, che alla fine mette mano al portafogli per salvare capra e cavoli. Così è accaduto, dall’America all’Europa. Pioggia di denaro pubblico per salvare banche e speculatori, nonché le società di rating che guardavano dall’altra parte, filosofeggiando su quanto è bello il libero mercato senza regole, mentre si preparava la tempesta perfetta.
Il punto è la debolezza di un sistema che appare molto forte, traboccante di denaro virtuale, ma sostanzialmente fragile. L’interconnessione mondiale si basa più sulle agevolazioni al commercio, e alla circolazione dei capitali, che ai controlli delle infezioni finanziarie: siano esse direttamente causate da spregiudicatezza, oppure conseguenza di crisi economiche cicliche o inaspettate.
Ne consegue che non viviamo nel migliore dei mondi possibili, desunto con la “fine della Storia” dopo la caduta del Muro nell’89, bensì nell’era della precarizzazione diffusa, non solo nell’ambito strettamente lavorativo, ma anche del sistema stesso. Basta un inciampo, un granello di sabbia, una buccia di banana, un virus, e il mondo traballa.
La nostra vita è agganciata ai debiti, siano essi privati o pubblici. Il sistema neoliberista non ha bisogno di cittadini felici, bensì di individui indebitati, resi fragili dalla precarietà lavorativa, insicuri, bramosi di carriera e status sociale. Con lo Status si possono avere i soldi, con questi si possono soddisfare tutti i bisogni indotti dalla pubblicità, o imposti dal ruolo che lo Status richiede.
Circoli viziosi dentro i quali non siamo più liberi cittadini, ma soggetti ai capricci del Capitale, e dei giochi in cui i ricchi diventano ancora più ricchi. Siamo dentro un’Europa che possiede almeno sei paradisi fiscali, ma impone il rigore a centinai di milioni di cittadini, impedendo, con la moneta unica, che gli Stati possano governare la politica economica nazionale.
Tutta questa storia, che caratterizza l’inizio del nuovo millennio, non può finire bene. I sistemi fragili sono destinati a crollare, prima o poi. Ma sulla testa di chi? E saremo pronti quando accadrà? Oppure rischiamo di tornare in balia di qualche soluzione autocratica, di cui abbiamo già troppi segnali in giro per l’Europa, e a casa nostra?
Evitando di dar fiato alle trombe del complottismo, è giunto il tempo di guardare alle cose con occhi disincantati e critici. Senza nutrire false speranze è necessario riprogettare il sistema, domandandoci (come fece Muhammad Younus) che senso hanno tante teorie economiche se la povertà dilaga, se si marginalizzano le persone, se diventiamo sempre più disumanizzati.
Lo scontro è titanico. Riprendendo l’immagine platonica della caverna, propongo una moderna chiave di lettura. Se dentro la caverna ci abita la maggioranza delle persone, che credono i riflessi sulle pareti essere la realtà, fuori dalla grotta ci sono due tipi di individui.
Da una parte quelli che si adoperano per far uscire gli abitanti della caverna e portarli verso la “luce”, per creare una comunità di individui liberi, felici, empatici, che adottano i principi indicati dall’economista Elinor Ostrom: la cooperazione (e la gestione dei beni comuni) come forza più potente della competizione, e realmente creatrice di ben-essere.
Dall’altra coloro che spingono le persone a restare nella grotta, per meglio controllarli. Sono quelli che vedono la vita come una lotta, una eterna competizione per sopraffare gli altri, che sono da considerare sempre dei nemici, al massimo utili servitori per i propri scopi. L’accumulo compulsivo e la predazione sono l’unica legge che conoscono. Producono “ricchezza”, ma evitano di distribuirla, se non nella misura strettamente necessaria al sostentamento di chi governano.
Come tutte le metafore è anche questa una semplificazione. Ma è tempo di decidere da che parte stare.
(D.A. 03.03.20)