
di Massimo Bonato
I rifugiati politici di tutto il mondo sono 12 milioni, ma i profughi dovuti al cambiamento del clima sono 22 (Norwegian Refugee Council’s Internal Displacement Monitoring Centre) e potrebbero diventare 200 milioni nel 2050 secondo un rapporto sui cambiamenti ambientali e gli scenari di emigrazione forzata , sviluppato da sette università.
Africani del Sudan, Eritrea, Somalia ed Etiopia emigrano in Arabia Saudita e Yemen, in fuga dall’avanzata desertificazione nei loro paesi. Le precipitazioni in Senegal sono diminuite del 50% negli ultimi venti anni e interi arativi e coltivazioni sono spariti. Così, la gente è costretta a emigrare in Europa su barconi. Ma anche dalla Cina l’emigrazione coincide con l’avanzare della desertificazione; e così pure le sempre minori precipitazioni causano l’emigrazione dalle regioni andine dell’Euador. In Mozambico, al contrario, sono le iniondazioni a porvocare la fuga migliaia di sfollati. Molte persone migrano dal Bangladesh, dove pure si solleva il livello del mare, e diventano più frequenti le inondazioni. Per la stessa ragione emigrano in Nuova Zelanda dall’arcipelago Tuvalu, nel Pacifico.
Ma la schiacciante evidenza degli effetti del cambiamento del clima non sembra spronare i governi ad adottare efficaci misure volte a ridurre le emissioni di gas a effetto serra.
Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento del clima delle Nazioni Unite (IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change) il cambiamento del clima comporterà la perdita di mezzi di sussistenza per le polazioni che vivono nelle zone costiere e nei piccoli Stati insulari a causa di tempeste, inondazioni e innalzamento del livello del mare; lo stesso si produrranno gravi rischi per la salute e la perdita dei mezzi di sussistenza anche nelle città per via inondazioni; sono prevedibili distruzioni di infrastrutture e servizi essenziali come acqua, elettricità, servizi igienico-sanitari per eventi meteorologici estremi; più decessi e malattie in periodi di calore estremo, e fame per la distruzione dei sistemi di alimentazione; perdita di risorse e di mezzi di sussistenza rurali per la pesante riduzione di acqua potabile e la mancanza di irrigazione; perdita di beni e servizi nelle comunità costiere che vivono di pesca nelle zone tropicali e nell’Artico.
Si può contenere l’aumento della temperatura globale e dei conseguenti cambiamenti climatici? Sì, se si prende in mano la situazione si potrebbe, ma subito, secondo l’IPCC. Tra gli altri provvedimenti, e non ultimi, bisognerebbe produrre profondi cambiamenti al livello tecnologico – come dimostra il recente rapporto pubblicato dalla Eea per l’Europa, Costs of air pollution from European industrial facilities, e nel comportamento individuale e collettivo sostituendo il consumismo postmoderno con un consumo responsabile più consono a questa età che della incoscienza consumistica sta perdendo le possibilità.
Per frenare l’aumento della temperatura della terra di 2 °C è necessario ridurre le emissioni di gas serra dal 40 al 70% rispetto al totale delle emissioni del 2010, a seconda delle aree. Oltre 2 °C, le conseguenze sono catastrofiche.
A partire dalla rivoluzione industriale, le emissioni di gas ad effetto serra sono aumentate costantemente. I gas hanno raggiunto un nuovo picco nel 2013, secondo un recente rapporto dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale. La concentrazione di anidride carbonica, principale responsabile del riscaldamento globale, è aumentata di 396 parti per milione nel 2013; il più grande aumento annuo in 30 anni. Non la vogliamo capire, ma il cambiamento del clima è una questione di vita o di morte.
Florent Marcellesi, teorico della ecologia politica e attivista, scrive: “Per evitare un aumento della temperatura di oltre 2 °C (concordato al vertice di Copenaghen del 2009), il Pil mondiale dovrebbe diminuire di oltre il 3% annuo; cioè del 77% entro il 2050″. E l’economista francese Michel Husson, citato da Marcellesi, pone un dilemma: crescita e disastrose conseguenze climatiche? o riduzione del PIL e recessione con dure conseguenze sociali?
È così? Gli analisti statunitensi Fred Magdoff e John Bellamy Foster, sostengono che il dilemma è radicato nel senso stesso del capitalismo, perché il capitalismo ha bisogno di una continua crescita economica ma la crescita conduce al disastro climatico: la sostenibilità in un sistema che si muove spinto dal profitto è il sogno di una notte d’estate. Ma il capitalismo è una condizione necessaria, o può essere sostituito da una civiltà ecologica senza disuguaglianza? C’è forse un’altra opzione?
Fonte: Argenpress