Bene comune, corvée e socialità

I lavori socialmente utili dovrebbero diventare un punto di riferimento nella gestione del contributo sociale alla società in questi momenti di crisi

Contributo di Antonio Alei.

Corvée è una parola di origine francese che un tempo definiva il lavoro obbligatorio non retribuito dei vassalli o servi della gleba nei riguardi del feudatario.

Le corvée potevano riguardare il lavoro dei campi, la manutenzione delle strade, la raccolta del legname e così via.

Oggi parrebbe impensabile sottoporre obbligatoriamente i cittadini a simili prestazioni, ma analizzando più a fondo la questione non è detto che non possa trovare un suo campo di applicabilità, pur rivisitato e corretto.

Attualmente abbiamo molte persone disoccupate, altre in cassa integrazione o sotto-occupate mentre c’è una urgente necessità di manutenzione delle infrastrutture, dei beni pubblici, di messa in sicurezza del territorio, ecc. ecc.

Di sua sponte, come invece avveniva un tempo, sembrerebbe che gli italiani non abbiano molta intenzione di accudire o salvaguardare il bene comune, anzi manca proprio il concetto di base di cosa sia o addirittura questo viene vandalizzato o distrutto.

In sintesi quello che vorrei proporre è l’istituzione di lavori socialmente utili, ma obbligatori (da qui il termine corvée), che investano l’intera fascia di popolazione (occupati e non, operai, impiegati, politici e super manager inclusi) fra i 20 e i 50-60 anni per un certo numero di ore al mese (indicativamente 4-5). Tali prestazioni sarebbero a 360°, ossia: dalla manutenzione e pulizia delle strade a quella dei corsi d’acqua; dalla manutenzione degli edifici pubblici alla sorveglianza di aree “sensibili”; dalla messa in sicurezza del territorio (boschi, corsi d’acqua, frane, terremoti, ecc.) all’assistenza agli anziani, malati e handicappati; dalla manutenzione e tutela dei beni culturali al riordino degli archivi pubblici; dall’impartire ripetizioni nelle materie scolastiche alla cura delle biblioteche; ecc. ecc.

Si tratterebbe di creare delle squadre (o mini task force) di cittadini in base alle competenze specifiche di ognuno, ciascuna con un proprio responsabile che dovrà redigere un programma di attività mensili e annuali, nonché essere custode dei mezzi d’opera forniti dalla parte pubblica; prima di entrare in campo, ciascuno dovrà ricevere un breve addestramento (sia teorico che pratico) sui compiti specifici che dovrà svolgere e superare una prova attitudinale.

Cosa potrebbero dare in cambio lo Stato o gli enti locali coinvolti? L’accreditamento di contributi pensionistici commisurati alle ore lavorate, lo sconto su tasse e sanzioni (come si sta tentando a Milano), punteggi per i concorsi pubblici, bonus di vario genere e così via.

Se la cosa potesse veramente funzionare al meglio ne beneficerebbe prima di tutto la collettività, riscoprendo il valore dell’immenso patrimonio infrastrutturale, monumentale, culturale e naturale che abbiamo a disposizione e di cui non siamo mai abbastanza consapevoli; lo Stato risparmierebbe risorse strategiche da destinare a settori essenziali allo sviluppo organico del Paese; i singoli ritroverebbero quel gusto per il lavoro di squadra, l’affiatamento, la sinergia e la socialità che i mass media e l’avvento dei moderni sistemi di telecomunicazione stanno minacciando a breve di far scomparire per sempre.