
di Massimo Bonato
Anche in Australia i rifugiati stanno diventando soltanto più una questione di sicurezza nazionale. È passata la settimana del 21 dicembre la legge a essa relativa, il Migration and Maritime Powers Legislation Amendment Act, che giunge sulla scia di un anno via via più restrittivo nei controlli. Dal settembre 2013, l’Australia è stata ligia nel seguire l’Operation Sovereign Borders (OSB), un’iniziativa di stampo militare, voluta dal governo, con la giustificazione di “combattere il traffico di esseri umani e proteggere le frontiere australiane” riporta «Eurasiareview».
In sostanza l’operazione risiede nel costante pattugliamento delle acque nazionali, l’intercettazione di imbarcazioni che trasportano i rifugiati richiedenti asilo e la successiva loro detenzione in centri off-shore, isole come Christmas Island, Nauru, Manus, o Papua nella Nuova Guinea. Isole sulle quali sono stati approntati veri e propri campi profughi, che i media australiani non hanno tema di chiamare con il loro nome Asylum-seeker detention centre(analoghi ai Cie italiani). In Indonesia li chiamano “le Guantanamo australiane”.
Amnesty International ne parla in termini di “umiliazione crudele” («GlobalPost»), perché “senza riguardo al fatto di dover determinare se si tratti o no di veri e propri rifugiati, viene fatta indistintamente pressione perché se ne tornino da dove sono venuti”, con un piccolo incentivo economico.
Il governo ha esultato per l’efficace azione della Marina, alle cui maglie, nel 2014, è sfuggita una sola imbarcazione. La Unchr (agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite) molto meno. Parla invece di “violazione dei diritti umani”, sia perché dal luglio l’Australia ha ridotto notevolmente la sua quota di ingresso dei rifugiati provenienti dall’Indonesia, sia perché a quelli in “detenzione” toccano tempi di attesa lunghissimi. Anne Hammerstad, docente dell’università di Kent e autrice di un libro sulla storia dell’Unchr, denuncia lo spostamento di attenzione dalla questione umanitaria a una questione di mera salvaguardia dei confini e di sicurezza nazionale.
Di diverso avviso è Travers McLeod, direttore generale del Centre for Policy Development (Cpd), che parla della questione in termini di “una patata bollente” ma la vede anche come “una finestra di opportunità per iniziare un dialogo nella regione”, e sottoscrive il successo del governo nell’essere riuscito a non far approdare nella mainlandaustraliana le navi di profughi.
In realtà i richiedenti asilo non sono però diminuiti, anzi: l’Unchr stima che nel 2014 siano state almeno 54.000 le persone che hanno intrapreso viaggi per mare pericolosi con tutti i mezzi per raggiungere l’Australia, con un aumento del 15% rispetto al 2013 ma di tre volte tanto rispetto al 2012. Un anno in cui stigmatizza il «Sidney Morning Herald» si sono avute maggiori disgrazie in mare. Sono anche qui palestinesi, siriani, iraniani, iracheni ed egiziani a cercare salvezza, e in misura minore, ma comunque presenti, i provenienti da Bangladesh e Myanmar.
A Jakarta, in Indonesia, però le cose si vedono con un’altra prospettiva. Il «GlobalPost», per esempio, ricorda come l’intera questione della sicurezza e di dover “fermare i barconi” prima che raggiungessero l’Australia siano stati centrali nella campagna elettorale dell’attuale primo ministro Tony Abbott, il quale non ha mancato di vantarsi di come effettivamente i richiedenti asilo siano stati fermati ben prima delle patrie coste. Ha mancato però di rispondere a come in definitiva l’Australia pensa di risolvere il problema dell’immigrazione, visto che perlopiù l’intera operazione di sorveglianza si è risolta nel far virare le imbarcazioni intercettate scortandole fino in Indonesia, ovvero ribaltando su questa un problema che l’Australia non sembra voler o poter risolvere da sé senza farne una questione “regionale” ovvero sudestasiatica, piuttosto che “nazionale”.