Art. 18: ma davvero è la fonte di tutti i nostri mali?

Continua la fiera delle parole sulle riforme al punto da rabbrividire ogni qual volta se ne sente parlare. Passata (?) l'ubriacatura delle improrogabili riforme costituzionali è la volta del lavoro. Altre mirabolanti rivoluzioni ci attendono con nomi ammiccanti (Job Act). Poi c'è il famigerato articolo 18 la causa, di tutti i nostri mali. Davvero?

di Davide Amerio

Trattare l’argomento è come muoversi sopra un campo minato. Qualsiasi considerazione rischia di scontentare qualcuno.

L’art. 18 è figlio delle lotte operaie per la conquista dei diritti, tra questi il diritto al lavoro. Ma che significato ha oggi il diritto al lavoro? Possiamo continuare a ragionare negli stessi termini di 30 o 50 anni fa? Davvero è l’articolo 18 ‘il’ problema della mancanza di lavoro? Secondo chi ne promuove l’abolizione sembra di sì. Ma è lecito avere dei dubbi dal momento che ogni qual volta il ‘potere’ in Italia punta il dito su qualcosa o qualcuno ci dimostra la chiara intenzione di distrarci dai veri problemi?

La questione assume, come sempre, i toni di opposte tifoserie. O sei dalla parte dei lavoratori o sei dalla parte delle imprese. Su questo terreno sei costretto a giocare in una delle due squadre e non importa se in questo modo i veri nodi non vengono risolti correndo dietro il pallone dei falsi problemi e tutto il sistema – quindi tutti noi – ci perdiamo. La fede ideologica è salva, le bandiere sventolano, tutti urlano ma il campo di gioco affonda e nessuno ci fa caso.

Nella mia vita – lavorativa- ho conosciuto ‘lavoratori’ ottimi, dediti con passione e senso di responsabilità alla loro mansione.  Ugualmente mi sono imbattuto, direttamente o meno, in imprenditori che credono in ciò che fanno; nell’azienda, nel rischio che si assumono, nel duro lavoro e nel riconoscimento e rispetto di quello di chi lo svolge nella loro impresa.

Poi ho conosciuto ‘non lavoratori’, grandi ‘fancazzisti’, ciarlatani ma di buona dialettica, al punto che ad ascoltarli pare l’azienda si regga tutta sulle loro spalle.  Infine ‘non-imprenditori’ ma beceri opportunisti, arraffoni, corruttori e imbroglioni. Oppure brave persone ma pasticcione che finiscono per distruggere ciò che hanno creato. Esperienze comuni a quanti hanno vissuto nel mondo del lavoro reale.

Errore è considerare il lavoro come una categoria a parte e non come il risultato di un processo di politica economica. Sono le scelte di questa che determinano il livello di occupazione: ciò che voglio produrre, come lo produco, quanto investo in ricerca e tecnologia,  quanto posso esportare etc etc.

E’ ormai noto che il progetto di liberalizzazione del mercato del lavoro altro non persegue che la strada di compressione dei salari e degli stipendi così come piace ai tecnocrati dell’Europa. La teoria economica ci spiega come in assenza di sovranità monetaria, che consenta di svalutare la moneta quando è “troppo forte”, per diventare – o restare, – competitivi, si deve incidere sulle retribuzioni per diminuire i costi.

In un contesto economico di recessione conclamata questa scelta rappresenta un vero e proprio suicidio.

Ridurre ulteriormente  le retribuzioni attraverso un processo di precarizzazione per il quale le persone possono essere indotte ad accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione economica pur di sopravvivere, oppure son costrette  a subire demansionamenti  pur di mantenere il posto di lavoro, conduce direttamente sulla strada di un clima di sfiducia sia dei consumatori (che tenderanno a spendere sempre meno vista l’incertezza del loro futuro) sia degli imprenditori (che investiranno sempre meno di fronte a un mercato dei consumi in agonia). Follia quindi, in tutto e per tutto.

Sappiamo bene che il freno agli investimenti in italia non è determinato dal costo del lavoro quanto da altri fattori: corruzione, giustizia, costi infrastrutturali.

Se vi siete presi il disturbo di leggere la seconda parte della nostra intervista all’economista Loretta Napoleoni e quella intera  a Gaestano Alessi che parla di mafia e di intreccio con la politica e l’economia del paese, potete avere bene in chiaro il quadro in cui questa classe politica ci ha confinato: un paese “medio orientale” dominato da oligarchie (in combutta con le mafie) nel quale non si usano le armi ma le male parole per delegittimare le opposizioni.

La corruzione è il cancro che corrode dall’interno questo paese e anche le pietre sanno che se fai l’imprenditore devi scendere a patti con una gestione mafiosa del potere. Poi ci sono proprio le aziende che fanno capo direttamente a mafiosi conclamati che operano indisturbati. La giustizia è lenta per cui qualsiasi controversia con un lavoratore o per esigere crediti da un debitore diventa un pellegrinaggio di avvocati, tribunali e cause. D’altro canto un paese che promuove i corrotti e gli evasori fiscali a ‘padri costituenti’ delle riforme costituzionali non può certo avere a cuore l’efficienza di un sistema giudiziario. Sempre la corruzione agisce sui costi reali delle infrastrutture; ciò che potrebbe costare 100 a prezzo di mercato, lo Stato (e quindi i cittadini) lo pagano da due a cinque volte tanto. E i prezzi dei servizi sono maggiorati di conseguenza e si riversano sulle spalle dei cittadini (che rivendicano poi stipendi maggiori) e sulle imprese (che vedono lievitare i costi aziendali a discapito della competitività).

L’abolizione dell’art. 18 è quindi un falso problema. Nel senso che la sua cancellazione non comporterebbe alcun vantaggio economico bensì inciderebbe solamente sulla lesione dei diritti delle persone che sarebbero alla mercé di imprenditori senza scrupoli (e non ci mancano nemmeno questi).

Sarebbe comunque opportuno che i sindacati smettessero di proteggere i ‘fannulloni’ pretendendo strumenti legislativi che consentano di valorizzare, e proteggere, chi lavora seriamente  da chi non lo fa. Ci sono gravi responsabilità dei sindacati (più che altro della triplice)in questo paese, troppo avvezzi a giocare ruoli personali in politica o a far da sponda invece che tutelare i lavoratori o tutelandone solo una parte.

Un vero atto ‘rivoluzionario’ degno del nuovo millennio sarebbe concepire e progettare nuovi ‘modelli di impresa’. Nella nostra storia ci sono esempi rivoluzionari come quello di Adriano Olivetti. Se dobbiamo modificare qualcosa lo dobbiamo fare non nella direzione di rivendicare o combattere dei ‘diritti’ ma in quella di costruire una visione diversa dell’impresa e del lavoro.

Dotare il sistema economico di leggi e strumenti che favoriscano processi di collaborazione all’interno di una azienda e non più di competizione. Dove il ‘guadagno’ sia ripartito, in modo automatico, tra l’imprenditore e i lavoratori, equamente, riconoscendo sia il rischio di impresa sia il valore e il contributo del lavoro ai risultati. Questo consentirebbe di ripartire il senso di responsabilità tra imprenditori e dipendenti con la chiara prospettiva per questi di veder effettivamente riconosciuta la propria collaborazione alla prosperità dell’azienda.

Costruire un sistema nel quale i ‘migliori’ imprenditori incontrano i ‘migliori’ lavoratori e, fatto salvi alcuni diritti fondamentali, sia la coesione e il senso di compartecipazione all’interno dell’azienda a renderla ‘competitiva’ sul mercato.

Fantascienza? Può darsi! Ma non credo. Di sicuro l’alternativa che le filosofie economiche europee ci stanno imponendo per mano di burattini messi a capo dei governi ci condurranno alla povertà progressiva e a conflitti sociali probabilmente violenti.

L’immaginazione e la visione di un progetto nuovo è ciò che realmente ci manca. Senza di queste non c’è futuro.

D.A. 26.09.14